Manuela Agosta è la numero undici. L’undicesima persona a essersi tolta la vita in carcere nel 2022, e cioè in poco più di quaranta giorni. Si è uccisa giovedì scorso, impiccandosi con un lenzuolo nella sua cella nel carcere Gazzi di Messina, dove si trovava da sole 48 ore, in custodia cautelare nell’ambito di un’operazione antidroga condotta nei giorni precedenti a Catania. Aveva 29 anni. Era stata interrogata dal Gip per la convalida del provvedimento e aveva reso dichiarazioni spontanee. Pare che la donna avesse iniziato a piangere appena varcata la soglia della prigione. Era indagata per concorso in spaccio di sostanze stupefacenti: a quanto si apprende, per aver ceduto illecitamente marijuana ed hashish.

Sul suicidio di Manuela Agosta i pm di Messina hanno aperto un’inchiesta “per istigazione al suicidio contro ignoti”, riferiscono le agenzie di stampa, hanno disposto il sequestro della cella e l’autopsia sul corpo della giovane.
I familiari di Manuela, assistiti dall’avvocato Vincenzo Mellia di Catania, hanno depositato un esposto ai carabinieri di Catania e alla Procura della Repubblica di Messina, chiedendo di chiarire i contorni della vicenda. Una vicenda molto dolorosa, su cui il professore Giovanni Fiandaca, illustre giurista che in Sicilia ricopre l’incarico di garante regionale delle persone private della libertà personale, ha chiesto una relazione alla direzione del carcere di Messina, fa sapere al Riformista. Solo poche ore prima era stato raggiunto dalla notizia di un altro tentativo di suicidio all’Ucciardone di Palermo. Martedì sera, nello stesso istituto, si era tolto la vita Francesco Merendino, appena 25 anni, uno dei detenuti cosiddetti “problematici” e “a rischio suicidiario”, a cui mancava poco per terminare la pena, come ha reso noto il garante nazionale dei detenuti. Mercoledì invece è stata la volta di un trentatreenne di origini tunisine recluso a Monza.

Una serie drammatica di morti che impone di alzare il livello di attenzione. È necessario «attivare progetti di accoglienza alla vita carceraria», ci spiega il professore Fiandaca, «soprattutto nei confronti di chi entra per la prima volta in un istituto di pena» e non è attrezzato ad affrontare un trauma simile, «coinvolgendo – previa adeguata formazione – anche gruppi di detenuti nell’attività di sostegno psicologico ai nuovi arrivati». «Mancano le risorse umane, gli specialisti in psichiatria sono andati via via diminuendo», denuncia Fiandaca. Intanto il disagio dilaga, anche a causa del Covid che ha prodotto angoscia e sofferenza particolarmente acute nelle prigioni: per la paura del contagio associata alla difficoltà di isolare i positivi in ambienti sovraffollati, ma anche per le restrizioni che hanno limitato i colloqui, allentando ulteriormente il filo delle relazioni affettive e i rapporti con l’esterno.

«Si stima, ma non ci sono statistiche precise, che il disagio psichico riguardi più del 40 per cento dei detenuti, chiudiamo in carcere persone fragili sapendo che la detenzione non potrà che peggiorare la loro condizione. Prima di disporre le misure carcerarie, ogni magistrato dovrebbe valutare anche le condizioni psicologiche, ma chi ha la sensibilità per farlo?», domanda Giovanni Fiandaca, che coglie così l’occasione per mandare un messaggio in vista della nomina del capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dopo il pensionamento di Dino Petralia: «Non dovrebbe essere un pm, ma un giudice di sorveglianza con la sensibilità e la competenza per affrontare il tema del disagio psichico e delle patologie psichiatricamente rilevanti». C’è però un altro aspetto da non trascurare quando si parla della piaga dei suicidi tra i detenuti, di fragilità e anche di sovraffollamento: le ragioni per le quali si finisce in galera.

Oltre un terzo dei reclusi nelle carceri italiane è dentro per violazione della legge sulle droghe. Proprio come Manuela Agosta. In moltissimi hanno problemi di tossicodipendenza: il 38,6 per cento di coloro che hanno fatto ingresso in prigione nel 2020, si legge nell’ultimo “Libro bianco sulle droghe” curato da Forum droghe, Antigone e altre associazioni, una percentuale in aumento costante. Anche per questo da più parti si invoca una modifica del testo unico sugli stupefacenti che, attraverso un deciso intervento di depenalizzazione, consentirebbe di risolvere l’annoso problema del sovraffollamento in carcere, nuovamente in crescita dopo la flessione dovuta alle misure straordinarie anticovid varate dal governo per prevenire il contagio tra i detenuti.

Il 15 febbraio la Corte costituzionale è chiamata a giudicare l’ammissibilità del quesito referendario che punta, tra l’altro, a eliminare le pene carcerarie per tutte le condotte legate alla cannabis. Una riforma in senso antiproibizionista, che darebbe una boccata d’ossigeno al disastrato sistema penitenziario, risparmiando a tanti l’esperienza della galera.