Se c’è un giornalista e scrittore che conosce ogni sfaccettatura del “pianeta Usa”, questi è Furio Colombo. Negli Stati Uniti è stato corrispondente de La Stampa e di La Repubblica. Ha scritto per il New York Times e la New York Review of Books. È stato presidente della Fiat Usa, professore di giornalismo alla Columbia University, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York. In questa conversazione con Il Riformista, storia e politica s’intrecciano indissolubilmente nelle riflessioni di Colombo, dalle quali emerge con grande nitidezza il ritratto di un’America divisa, incattivita, chiamata tra due mesi ad eleggere il suo presidente. Un’America segnata dalla violenza e dal moltiplicarsi di casi di afroamericani morti in circostanze drammatiche, come Daniel Prude, un trentenne di colore con problemi psichiatrici, incappucciato dalla polizia e morto asfissiato nello stato di New York.

Joseph Kennedy III, nipote di Bob Kennedy e pronipote del presidente John Fitzgerald assassinato nel 1963, è stato sconfitto nelle primarie democratiche per il seggio senatoriale del Massachusetts, roccaforte di famiglia. Neppure un Kennedy siederà nel prossimo Congresso. Non accadeva dal 1947, con l’eccezione di due soli anni. È il tramonto di una dinastia che ha fatto la storia degli Stati Uniti d’America?
Io non credo che in questo caso sia successo qualcosa di straordinario. Qualcosa di straordinario è successo negli Stati Uniti: il Paese è radicalmente cambiato. I titoli di riferimento morale, psicologico, storico e anche di orgoglio americano, si sono trasformati in una latente, seminascosta tendenza al suprematismo bianco e al sovranismo populista, che ha creato un cambiamento profondo. Questi Kennedy che si presentano ora in un certo senso non sono nessuno. Basti pensare che Stati come New York e California sono ostili e in guerra con il presidente degli Stati Uniti. L’America sta cambiando, è cambiata in peggio. Ed è cambiato in peggio anche lo Stato del Massachusetts che non è più quello che racconta con la sua tradizione di liberalismo e kennedismo. Il Massachusetts ha avuto incidenti razziali seri, non recentissimi ma li ha avuti. Il cambiamento riguarda quello Stato come gli altri Stati dell’Unione. Ed è un cambiamento profondo, di peggioramento, di caduta. E questa caduta continua. In questa campagna elettorale non si manifesta l’insorgere del Paese nei confronti della terribile qualità politica ma anche amministrativa di Trump nel fare il presidente degli Stati Uniti. Avrebbero dovuto dar luogo ad una sorta di insurrezione morale, e invece hanno dato luogo ad una sorta di insurrezione stradale, di combattimento e di scontri che sono il capolavoro della destra.

Un capolavoro della destra, perché?
Perché quando tu posizioni la polizia in modo da umiliare, offendere e ricacciare le persone di colore, in un Paese che ha una storia drammatica, brutta e bella, perché c’è stato anche Martin Luther King, una storia comunque drammatica di rapporti razziali, non c’è dubbio che quel ginocchio sul collo di George Floyd, non avviene per caso, non succede perché un poliziotto è di cattivo umore quel giorno. Sarebbe complottista e fuori posto immaginare che sia tutto organizzato dalla gente di Trump affinché queste cose accadano, ma non vi è dubbio che il clima che si è creato è quello che tutto ciò è possibile. Se tu riesci a scardinare la tenuta della gente nera e della gente ispanica, se riesci a scardinarla e fare perdere l’equilibrio, in modo che attacchino, in quel momento tu hai creato delle condizioni di notevole favore per una campagna elettorale, quella di Trump, tutta basata sulla sicurezza, sulla paura, sul timore che il Paese perda l’equilibrio. Del resto Steve Bannon, che oggi se la vede in prigione per altri motivi, ci aveva insegnato che s’inventa radicalmente questo tipo di destra. Quindi sono stati bravi, veramente bravi a inventare la lotta, la guerra con i neri e con gli ispanici. Purtroppo la notizia triste è che una grande parte di americani che ti dicono la loro costernazione, non sono però insorti. E così, per tornare alla domanda iniziale, non c’è da stupirsi che un Massachusetts del tutto sconnesso con quello che ha eletto e mantenuto con una dinastia interrompibile la figura di JFK, questo Massachusetts profondamente cambiato, abbia mostrato disinteresse per una continuità di quel tipo di moralità nella politica e di umanità nel potere, ed abbia ignorato del tutto ciò che ad alcuni di noi, andando indietro nel tempo ma neanche troppo, sembra ancora un periodo straordinario e che tristemente è giunto alla fine.

In questa situazione, in un’America che tra due mesi eleggerà il suo nuovo presidente mentre si moltiplicano i casi di afroamericani morti per mano della polizia, non c’è il “rischio” di una rielezione di Donald Trump?
Il rischio è altissimo. La probabilità e il rischio in questo caso sono due parole molto diverse. Da un punto di vista di puro e semplice esame delle cose così come sono, delle possibilità che la gente scelga, che la gente si orienti, che i cittadini decidano, resta ancora una buona, seria, solida speranza che la rivolta contro Trump ci sia e funzioni. Resta il fatto, però, che queste elezioni ci hanno fatto scoprire che i sentimenti di ripulsa verso il trumpismo, che dovrebbero essere estremi e fortissimi, sono meno estremi e meno forti di quanto avevamo creduto. Ci siamo detti, e quando dico “ci” intendo gli americani liberal ma anche gli europei liberal, sulla base di una fiducia lunga molti decenni, che l’America può fare pure, e ne ha fatte, cadute rovinose, ma prontamente si riprende perché ha delle istituzioni molto solide e raramente danneggiate, mentre l’Europa rovina le proprie istituzioni rendendosi più debole per una problematica ripresa. L’America a noi sembrava capace di brutte cadute, ma che avevano la caratteristica di non intaccare le istituzioni: Costituzione, Corte suprema, i principi fondamentali dei Federal papers, la tradizione delle grandi presidenze, ci era sembrata sempre in grado di ritornare a curare i mali, anche gravi, che di tanto in tanto abbiamo visto scoppiare. Il “fenomeno Trump” è stata una sorpresa enorme, quando si è manifestato. Girando per l’America durante tutto quell’anno, non ho incontrato una sola persona che mi abbia predetto come ovvia, ma anche solo come possibile, la vittoria di Trump. Io ricordo una meraviglia grandissima negli Stati Uniti per quello che era accaduto. Sembrava che gli americani non si rendessero conto di come era stato possibile, ma chi era questa gente, ma da dove veniva questo sostegno a Trump. C’è stato un periodo intermedio, durato meno di quello che avrebbe dovuto durare, in cui il New York Times apriva ogni giorno, con la scritta “la notte è calata sulla Repubblica”, in cui gli americani sembravano non adattarsi a questa follia che non avevano capito e non avevano previsto. Gradatamente si è verificato un fenomeno di adattamento, e poi, in questo ultimo periodo, nel peggioramento di comportamento di Trump durante la campagna elettorale, una sorta di fatalistica accettazione, di una parte dell’America che ci sembrava sicuramente estranea e sicuramente contraria. Di conseguenza, l’ansia è giustificata.

Guardando il versante democratico, come valuti la campagna presidenziale di Joe Biden e la scelta di Kamala Harris come vice presidente?
La scelta della sua vice è perfetta. Il limite semmai è che arrivata tardi, non abbastanza in tempo per disegnare la fisionomia politica della presidenza così come essa sarebbe se vincessero i Democratici. Il fatto è che in un tempo di possenti passioni, negative o positive, l’America ha avuto un leader, ma non l’altro. In Trump continuo a vedere l’astuzia nel mantenersi feroce, mentre il leader democratico viene avanti con una serenità e una quiete che purtroppo non sono affatto all’altezza della situazione tremenda che l’America sta vivendo. Ed è una situazione molto simile a certi fatti europei, certo simile all’Italia. D’altro canto, abbiamo avuto sempre delle analogie con l’America. Quella che manca nell’America anti-Trump è la passione. Non c’è passione in questa campagna elettorale, così come non c’è passione nella vita politica italiana in questo momento. L’analogia ci serve solo per dire che la mancanza di passione è di per sé perdente. La passione è altra cosa dalla rabbia. Se queste fossero delle previsioni organiche e basate su una migliore conoscenza di quelle che io ho oggi dall’Italia, ci sarebbe da essere allarmati per quello che potrebbero essere i risultati, perché non mi sembra che si stia arrivando sulla corsia giusta. È come quando in tutti i tipi di corse, ti accorgi che il secondo sta perdendo un millimetro, ne sta perdendo due, e si sta posizionando in un ritardo che potrebbe anche essere minimo ma intanto non è risalibile. È così come dico io? Spero di no, però, purtroppo, non c’è dubbio che l’aver impostato come hanno fatto i Democratici, la loro campagna elettorale sulla base della vecchia persuasione, che non vale più, che si vince al centro, ha atto sì che persino Sanders è apparso debole di fronte a un Trump che, bene avvisato, ha capito che non si vince affatto al centro, ma si vince all’estremo. Debole nei confronti della violenza e della aggressività forsennata di Trump, e del legame che per forza c’è tra quel ginocchio sul collo del nero Floyd e il profondo della vita americana in questo momento.

In un suo libro di successo, Trump power, come sottotitolo c’è questa affermazione: “Un corpo estraneo è entrato dentro la Casa Bianca. Ed è cominciata una crisi di rigetto”. Il libro è del 2017. Oggi lo riaffermerebbe?
Sì. Per capire quanto forte sia stato quel rigetto, occorre considerare due fattori: il primo è il numero altissimo di collaboratori che Trump ha continuamente cambiato. Il secondo è il fatto che molti di questi collaboratori che Trump ha continuamente e rapidamente cambiato, erano repubblicani della più stretta osservanza conservatrice. Tutto questo ci dimostra che Trump è andato al di là di quella che chiamiamo il percorso reazionario-conservatore tipico di certi settori della destra americana. Poi, però, è accaduto che il rigetto che la Casa Bianca stava mostrando di fare, si è ritirato a confronto con il potere che Trump è stato in grado di esercitare. È una storia molto simile alle storie tremende delle destre europee. Diciamo che non è la storia di Mussolini, ma è certamente la storia di Hitler, nel senso che ai suoi tempi era ragionevole scrivere che era in corso una crisi di rigetto. Basta pensare ai diari di Christopher Isherwood, che prevedeva addirittura una crisi di rigetto, e ha avuto delle difficoltà notevoli ad essere accettata, poi però Hitler ha vinto. Non dico che Trump abbia vinto, non lo sappiamo ancora e speriamo che non sia il caso, speriamo di aver esagerato nel pessimismo, ma resta il fatto che la crisi di rigetto, che è avvenuta proprio alla Casa Bianca ed è avvenuta proprio nei settori conservativi del Partito repubblicano, non ha agganciato davvero l’opinione pubblica come ci saremmo aspettati.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.