Il voto Usa e il Medio Oriente
Elezioni americane, tra ambiguità e occhiolini ai pro-Pal è in gioco lo storico asse con Israele
Harris punta sulle star hollywoodiane che parlano di genocidio e definiscono nazista lo Stato ebraico Trump, almeno a parole, riconosce che Gaza è dominata dal terrorismo. Ma i rapporti restano in bilico

Non si poteva pretendere che, in vista del voto che potrebbe incoronarla, Kamala Harris indispettisse troppo la bestia pro-Pal che scalcia nel ventre democratico della sua constituency. Per questo ha deciso di condividere i palchi dei suoi giri elettorali con le star hollywoodiane che parlano di genocidio e definiscono nazista lo Stato ebraico. Per questo si è obbligata a fare comizi in duplice versione, con qualche debole concessione al diritto di Israele di difendersi se aveva davanti una platea potenzialmente avversa a quella retorica incriminatrice e, al contrario, con abbondanti ammiccamenti in stile sudafricano e da Corte Internazionale di Giustizia quando annusava che l’uditorio era composto da gente cui non andrebbe affatto male, anzi, se gli Stati Uniti capitanassero il corteo dei boicottaggi e degli embarghi.
Certamente Kamala Harris non avrebbe potuto lasciarsi andare alle dichiarazioni sbrigliate del suo avversario, Donald Trump, il quale ha definito Gaza “un’area infestata dal terrore” e ha promesso che arresterà “i teppisti pro Hamas che hanno vandalizzato la proprietà federale”. Non avrebbe potuto farlo per due motivi uno più grave dell’altro. E cioè, in primo luogo, perché non ci crede. Non crede che la guerra di Gaza sia una guerra contro il terrore che sequestra i palestinesi e minaccia gli israeliani e non crede che i manifestanti pro Hamas attentino davvero a qualche bene prezioso della democrazia statunitense. In secondo luogo – ed è il tratto più grave delle sue ambiguità – Kamala Harris non ha potuto nemmeno far finta di crederci perché, se lo avesse fatto, si sarebbe esposta al dissenso dei tanti disposti ancora a votarla, sì, ma a una condizione: e cioè a patto che la teoria della difesa di Israele e degli ebrei non pregiudichi la pratica che rema contro alla fornitura di armi e lascia correre la caccia all’ebreo nei campus.
Il vecchio presidente ha fatto il possibile affinché la belva anti-israeliana e antisemita che ha preso il governo dell’America ordinaria e quotidiana non arrivasse a insidiare in profondità i rapporti di alleanza tra i due paesi, e ci è riuscito mantenendo relazioni complicate ma non del tutto ammalorate. Ma questo non ha impedito alla sua amministrazione di essere letteralmente travolta dall’andazzo che sin dal’8 ottobre dell’anno scorso portava a Times Square le insegne di Hamas e consentiva alle rappresentanti di tre rettorati universitari di spiegare che l’inno al genocidio degli ebrei non è riprovevole in sé, ma a seconda del contesto.
La realtà è che nessuna riserva circa l’affidabilità democratica di Donald Trump può assolvere le responsabilità catastrofiche di Joe Biden e della sua vice nell’aver sottovalutato, quando non istigato, la vasta e violenta sedizione anti-americana che si sfogava nei roghi delle bandiere di Israele e che soltanto per stolida compiacenza era spacciata come la riedizione delle proteste contro la guerra nel Vietnam. Nessun legittimo timore per la brutta piega che Donald Trump potrebbe dare alla democrazia statunitense può far dimenticare lo spettacolo indecente offerto da Kamala Harris e dallo stesso Joe Biden a proposito degli ostaggi, mai menzionati in mesi e mesi e ripescati in frettolose conferenze stampa solo dopo che il candidato repubblicano li aveva messi al centro di un comizio come al solito sbruffone, ma non inascoltato presso i tanti che – negli Stati Uniti come in Israele – chiedevano da un anno che non ci si dimenticasse delle donne, degli uomini, dei vecchi e dei bambini nelle mani delle belve del 7 ottobre.
Non sarà deciso da questi argomenti l’esito del voto. Ma sarebbe tragicamente erroneo credere che tra i molti problemi con cui avrà a che fare la nuova amministrazione, chiunque sarà a condurla, non ci sia quello di ripristinare un rapporto fiduciario con Israele e con gli ebrei abbondantemente compromesso. Non si sa se, ove fosse eletto, Donald Trump saprebbe farlo. Si sa che, se fosse eletta, Kamala Harris non lo considererebbe affatto un problema.
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