Chi ha ragione? Il campione del mondo Kylian Mbappé, che esorta i francesi a recarsi alle urne perché “non possiamo mettere il paese nelle mani di quelli”? O Marine le Pen che si dice stanca di “ricevere lezioni di morale”? Si vedrà presto, non più tardi di domani sera, quale sarà la composizione dell’Assemblea nazionale. Nel frattempo, sull’onda di questo straordinario anno di elezioni che sta chiamando al voto la metà esatta della popolazione mondiale, è tempo che la politica cerchi di guardare oltre il dito. Che si ponga, senza reticenze, qualche domanda. E per esempio.

Fino a che punto è vincente la retorica dell’allarme democratico, l’appello contro la minaccia reazionaria? Fino a che punto è utile chiamare alle armi i propri elettori come fossero brigate partigiane? Fino a che punto siamo di fronte a svolte senza ritorno? Sta succedendo in Francia, questa sorta di evocazione dell’ineluttabile, ma è successa e succederà anche altrove.
Forse però, osservandole più da lontano rispetto alla cronaca del giorno dopo giorno, le cose non giustificano sempre l’allarmismo. Non sono cristallizzate come gli slogan che le definiscono. Si muovono comunque, si modificano, si adattano. Dopotutto, sentendo il profumo (e le responsabilità) del potere, anche il Rassemblement National sembra venire a più miti consigli e manda il giovane Jordan Bardella a rappresentare il nuovo volto della destra, meno euroscettica, rispettosa degli impegni internazionali, garante della convivenza civile, ambientalista.

Il modello Meloni

Messaggi per i moderati, evidentemente, che ripercorrono – si è detto dagli osservatori – il modello Meloni, ovvero la possibilità di riposizionare una destra nostalgica di opposizione in una destra conservatrice di governo. E gli italiani sanno quanto le elezioni del 2022 furono giocate su una drammatizzazione della posta in gioco e quanto, non di meno, la destra abbia poi praticato politiche pubbliche in sostanziale continuità con il passato.
Certo è che alzando il livello dello scontro politico, facendo gravare su un turno elettorale il peso di una scelta poco meno che epocale, si rischia di creare aspettative fittizie e fittizi timori.

L’Inghilterra del Labour? Si vedrà. Il semestre di presidenza europea di Orban? Si vedrà. Si vedranno le continuità e le discontinuità. Lo stesso panico dei democratici americani – e dell’intero Occidente liberale – di fronte all’ipotesi di un secondo mandato a Trump, per esempio, dimentica troppo facilmente che le politiche del tycoon furono, a suo tempo, più in continuità con le passate amministrazioni di quanto si ritenga usualmente. Anche sul piano globale. Non è Trump, a ben vedere, che ha inventato il trend neoisolazionista dell’impero americano. Del resto, la politica segue logiche interne e internazionali che s’intrecciano di regola con altre istanze, altre agenzie, altri interessi. Politica, società ed economia non sono isole. E raramente perciò le proposte politiche coincidono con il profilo mediatico di un leader o con la demonizzazione che ne fanno gli avversari, sebbene questa sia la tendenza prevalente del discorso pubblico. Gli italiani hanno votato Giorgia Meloni pur non avendo nulla a che fare con i giovinastri del saluto romano. I francesi hanno votato in massa i lepenisti, pur essendo lontani da Vichy e dal vecchio Jean-Marie. E gli americani, c’è da credere, non cadranno nella trappola mediatica che mette loro di fronte “un deficiente e un delinquente”.

Votare il meno peggio

Del resto, l’allarmismo chiama a raccolta i fedelissimi, gli zoccoli duri, gli elettori sensibili alle istanze più ideologiche. Ma poi ci sono tutti gli altri. Ci sono coloro che hanno votato (e voteranno domani) per il Rassemblement National pur avendo molti dubbi sul suo passato radicale. Ci sono coloro che voteranno Trump pur non condividendo la sua violenta retorica sulle elezioni truccate e tanto meno l’assalto al Campidoglio. Sono quelli, come usava dire da noi in altri tempi, che mettono una croce turandosi il naso. Che non trovano nell’offerta politica una rappresentanza adeguata dei propri valori e interessi, ma, rifiutando le chiamate alle armi, scelgono quel che ritengono il meno peggio. Dopotutto, c’è un motivo per cui amiamo senza se e senza ma la democrazia, ed è il fatto inoppugnabile che gli elettori non sono mai una massa amorfa, non sono impunemente manipolabili, non sono disposti a seguire il primo pifferaio che passa. Sono sempre e comunque una garanzia.

La lezione a Erdogan e il ridimensionamento di Modi

Ed ecco così che i turchi danno un’amara lezione a Erdogan, premiando la buona amministrazione dei propri sindaci riformisti. Ecco che gli indiani ridimensionano il potere del populista Modi. Ecco che gli iraniani, addirittura, osano opporsi a un regime sanguinario disertando le elezioni. Tutto ciò è ben poco ineluttabile.
Piuttosto, tornando al nostro Occidente, varrebbe la pena chiedersi fino a che punto la retorica dell’allarmismo non finisca per essere una sorta di mortificazione degli elettori. Perchè una cosa è certa. Proporre ai cittadini un voto di paura, un voto contro, addirittura un voto esistenziale, mette fatalmente in sordina ogni altra motivazione, impedisce di scegliere fra programmi alternativi, di trovare il luogo della propria rappresentanza. E impedisce, non di meno, di scrutare il futuro con la fiducia che la democrazia possegga gli anticorpi per sopravvivere anche ai cicli politici meno promettenti. “Après moi le déluge!”, diceva Luigi XV. Ma sono passati secoli e oggi la Francia ha un regime presidenziale che garantisce comunque a Macron altri tre anni di forti poteri in materia interna e in materia internazionale. Che sia il tempo del diluvio, comunque vada a finire il secondo turno, sembra assai opinabile.