Il 14 maggio può essere cruciale per il destino della Turchia. Le elezioni possono infatti rappresentare la definitiva consacrazione di Recep Tayyip Erdogan o la fine della sua lunga stagione di potere a vantaggio del leader dell’opposizione, Kemal Kilicdaroglu. I sondaggi mostrano un Paese spaccato a metà. Secondo molti analisti, lo scenario più probabile è quello di un leggero vantaggio di Kilicdaroglu al primo turno con un duello all’ultimo voto al ballottaggio.

Tuttavia, Erdogan ha spesso saputo rovesciare le aspettative elettorali, e lo dimostra anche l’ultimo raduno oceanico di Istanbul con più di un milione e mezzo di sostenitori. Per il “Sultano” la sfida non è semplice. La crisi economica, manifestata dall’alto tasso di inflazione e dal crollo della lira turca, rappresenta un problema per tutti i ceti sociali, dai più poveri fino alla classe media. Il terremoto di febbraio che ha devastato le regioni meridionali causando migliaia di morti e sfollati, ha mostrato le lacune del boom edilizio di cui è accusato proprio Erdogan.

Il grande nodo dei rifugiati siriani è tornato a essere argomento di discussione e strumentalizzazione, e molti elettori sia pro che anti Erdogan chiedono che i profughi siano al più presto rimpatriati. Tutto questo si somma a una politica del presidente turco sempre più polarizzante, fortemente conservatrice e distante dal kemalismo, improntata su uno stile autoritario e che ha chiamato a raccolta le opposizioni per unirsi sotto il nome di Kilicdaroglu a prescindere dal proprio substrato ideologico.

È proprio questo elemento culturale, tra islamismo e nazionalismo, a essere del resto fondamentale per comprendere il voto. Se infatti è su queste due matrici che si fonda il consenso di Erdogan nella Turchia profonda, in particolare l’Anatolia, essi sono anche i motivi per cui milioni di curdi, giovani (cinque milioni solo quelli che voteranno per la prima volta) e donne potrebbero votare più convintamente Kilicdaroglu. Un politico che non ha mostrato grandi doti carismatiche, ma che potrebbe rassicurare queste componenti fondamentali del Paese e le grandi città occidentali.

Il voto è inevitabilmente un referendum sulla figura del presidente. Uno scenario che rischia però di essere un’arma a doppio taglio per l’opposizione, poiché alcuni osservatori avvertono che un blocco eterogeneo e unito dal voler mandare via Erdogan può frenare gli indecisi e compattare i suoi vecchi (seppure stanchi) elettori. D’altro canto, molti analisti si interrogano anche su come possa realizzarsi un’eventuale transizione di potere tra un leader che si è radicato nei gangli del sistema turco con ondate di arresti e ricambi degli apparati e un’opposizione che potrebbe non ricevere il placet dello “Stato profondo”, importante per un Paese con un potere stratificato come la Turchia. Il timore di una stagione di assestamento più o meno prolungata o addirittura di un mancato riconoscimento del risultato elettorale rischia di generare timori e dubbi.

I dubbi riguardano anche il ruolo internazionale di Ankara. Sotto Erdogan, la Turchia si è proiettata dall’Africa orientale alla Libia, dal Golfo Persico al Caucaso fino alla Siria e ai Balcani. Il suo rapporto con l’Europa è passato dalla richiesta di adesione all’Ue all’accordo sui rifugiati e alle tensioni con Grecia e Cipro. In parallelo, Erdogan ha rafforzato l’immagine della rinascita militare turca, puntando sull’industria bellica e sulla vendita dei suoi “gioielli”, in particolare i droni.

Infine, il presidente turco ha costruito una politica estera in costante equilibrio tra appartenenza alla Nato e autonomia nei rapporti con la Russia. Una scelta che gli ha permesso di ritagliarsi uno spazio da mediatore nel conflitto in Ucraina e che piace anche a molti oppositori. Questi hanno già fatto intendere di volere ripristinare relazioni ottimali con Nato e Unione europea, ma sembra difficile che l’eredità geopolitica dell’attuale leader venga totalmente accantonata.

Sull’Egeo e sui rapporti con Mosca, partiti e personalità legate a Kilicdaroglu hanno già dimostrato una visione non troppo contraria a quella di Erdogan, che ha sfruttato il palcoscenico internazionale anche come vetrina elettorale. L’appuntamento ha del resto una notevole carica simbolica. Nell’anno del centenario della Repubblica turca, il Sultano vuole confermarsi come il leader che ha trascinato il Paese in una nuova fase della sua storia, al punto che ha già iniziato a parlare di un nuovo “Secolo turco”.