Ucraina e il nuovo ordine globale
L’Europa entra in guerra con i tank tedeschi, la pace passa per Cina e Turchia
Con l’arrivo in Ucraina dei carri armati Leopard provenienti dalla Germania la guerra assume un assetto diverso e si tinge di bagliori sinistri. Da oltre cento anni è l’arma di terra per eccellenza, quella che terrorizzò i fanti tedeschi della Prima guerra mondiale, impietriti dai primi tank inglesi, quella della blitzkrieg tedesca che distrusse le armate inglesi e francesi nel 1940, quella di Patton che riconquistò l’Europa, quella del maresciallo Zukov che issò la bandiera sovietica sulle rovine di Berlino, sino all’invasione dell’Iraq da parte americana dopo l’11 settembre.
È uno scarto non marginale della guerra in Ucraina che, per la prima volta da decenni, si affrontino in campo aperto carri armati tedeschi e tank russi. Non accadeva dalla Seconda guerra mondiale. La ritrosia tedesca di questi mesi, battuta dalla martellante insistenza americana e della Nato, non era di sola facciata. Non si temporeggiava perché si fosse indecisi nel sostegno a Kiev, ma perché al primo scontro tra Leopard e T-72 sarà squarciato per sempre il velo di quella pace durata decenni in Europa e che sinora aveva tenuto distanti le armi dei vecchi avversari di due guerre mondiali e della stessa Guerra fredda. Sarà infranta quella tregua che aveva consentito la pacifica riunificazione della Germania, che aveva assicurato la fine non traumatica della più potente alleanza militare della storia, nota come il Patto di Varsavia.
Sulle pagine di questo giornale, quasi per primi, ci si era spesi perché l’Ucraina venisse a patti con l’aggressore e ne smorzasse le mire, perché la guerra non fosse considerata l’unica opzione possibile, perché fosse risparmiata la vita di migliaia di innocenti e di decine di migliaia di giovani soldati. Città sono state distrutte, massacri compiuti, popolazioni costrette alla fuga. L’Occidente sta pagando un prezzo enorme in termini di risorse economiche per non avere mai tentato seriamente di far tacere le armi. La Cina, prossima allo scontro per Taiwan nelle acque del Pacifico, annusa l’aria e ha avvertito l’opportunità di acquartierarsi in Europa sotto le guglie di una Mosca sempre più debole e in fibrillazione, sapendo bene che nessuno in Occidente è in condizioni di battersi su due fronti e che una piccola isola ribelle, che solo un pugno di Stati riconosce come nazione, non vale certo la pace per Berlino o Parigi.
È un piano inclinato, pericoloso, instabile di cui nessuno conosce l’esito, ma a cui nessuno riesce a sfuggire. Inutile chiedersi perché sia successo, per quale ragione nessuno abbia dato ascolto alle documentate denunce americane che segnalavano l’ammassarsi di truppe russe ai confini dell’Ucraina, sino al cambio di rotta di Washington, alla pericolosa illusione di sbarazzarsi una volta per tutte dell’Orso russo, umiliandolo con una sconfitta militare, non in Afghanistan come negli anni ’80, ma davanti all’uscio di casa, tra la sua gente. Sino a coinvolgere gli alleati, stritolati dalle pressioni belliciste, e convincerli a entrare definitivamente in collisione con Mosca; perché, sia chiaro, Berlino, con il trasferimento dei suoi carri armati in Ucraina, si è completamente chiamata fuori da qualunque interlocuzione con Putin e da qualunque progetto di pace di matrice continentale. Resistono, per ora, i soli francesi e, con il solito moto ondivago, gli italiani, a parole ferocissimi, ma nei fatti (per fortuna) ancora parchi e prudenti.
La pace in Europa, a occhio e croce, da oggi non passa più per l’Europa. Non è cosa da poco. Non era mai successo. A Yalta, insieme all’americano Roosevelt e al georgiano (e, quindi, europeo) Stalin, sedeva un tale Winston Churchill, insomma uno che era ancora a capo di un impero eurocentrico. Oggi le sorti della guerra sono nelle mani del turco Erdogan e del cinese Xi Jinping. Nulla di tranquillizzante per intendersi. È in moto la costruzione di un nuovo ordine mondiale e la Cina, con mille iniziative che è inutile ricordare, ha chiaramente rotto gli indugi e dà l’impressione di aver deciso di lanciare una sfida decisiva per il dominio del mondo. In un bell’articolo di qualche giorno or sono Domenico Quirico (La Stampa, L’imperialismo dei pezzenti) ha sbeffeggiato le smanie di potenza della Gran Bretagna che, solo mantenendosi stretta agli Usa, annaspa per avere ancora un ruolo internazionale e Massimo Giannini (ivi, La stanga di De Gasperi e la forza di Mattarella) ha messo il dito nella piaga purulenta di tante democrazie occidentali, drammaticamente in crisi a Parigi, a Washington come a Roma.
Certo le faglie del terremoto che scuote la pace erano in movimento da un pezzo; scricchiolii e crolli si udivano qua e là, ma la umiliante fuga della Nato da Kabul, prima, e soprattutto la guerra in Ucraina hanno d’un colpo portato alla ribalta i nuovi padroni del mondo, illuminando la fragilità dell’Europa, le sue divisioni, la sua inettitudine a ergersi a protagonista del cambiamento. Ecco che i barconi affondati, le navi delle Ong bloccate e osteggiate, le migliaia di persone distese sulle banchine dei nostri porti e sulle nostre spiagge, sono anche qualcosa d’altro da ciò che drammaticamente appaiono. Sono il segno di un “piccolo mondo antico” che vuole resistere alla modernità, vuole sottrarsi alla sfida della storia, tenta di rinchiudersi nell’anfratto dei propri privilegi; mentre la battaglia infuria e i primi tank tedeschi vanno incontro a quelli russi spezzando un sogno durato decenni.
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