Il saggio dell'antropologo
Elogio del margine: il confine come possibilità di cura e guarigione
“È più probabile che il cambiamento inizi dal margine, nella zona di confine tra ordini stabiliti”: stando “al margine” si scorgono le alternative; “al confine” si scoprono le possibili trasformazioni di una società. Il confine è una terra di nessuno e per questo è una soglia libera e aperta all’esplorazione, fertile di prospettive e idee nuove. Ne è convinto il dottor Arthur Kleinman – antropologo medico e psichiatra, docente della Harvard Medical School – i cui saggi più infl uenti sono stati per la prima volta pubblicati in Italia con il titolo De Docta Marginalia. Riti e sacralità della cura per la casa editrice palermitana rueBallu, con l’introduzione della dottoressa Angela Maria Callari.
“Nella liminalità della malattia, della povertà e di altre forme di miseria umana ho trovato la materia che anima il mio mondo, tanto moralmente quanto professionalmente. La mia materia è dunque il margine e il marginale” scrive Kleinman. La sua, infatti, è una posizione “liminale” tra antropologia e medicina, tra scienze umane e scienze sociali, in bilico tra cultura occidentale e cultura orientale. Nella sua vita professionale, divisa tra nord-America e Cina, Kleinman non solo ha sviluppato una critica serrata alla biomedicina occidentale, oggi imprescindibile per chiunque svolga una professione connessa all’ambito della cura; ma ha costruito una riflessione sull’esperienza umana della sofferenza che chiama in causa ognuno di noi. Dal margine l’antropologo scorge il limite del paradigma scientifico della medicina occidentale: ai vantaggi sul piano della conoscenza e della tecnologia, non corrisponde un adeguato sviluppo degli aspetti legati alla cura e alla comprensione della malattia come esperienza globale della persona.
Soltanto facendo parlare la vita di chi soffre, si scopre che nei piccoli cambiamenti marginali – che nel quadro clinico generale possono apparire insignificanti minuzie – si sostanzia ciò che davvero conta per reinventare la vita durante e dopo una malattia. La sofferenza non è sintetizzabile in dati quantitativi, in soluzioni tecniche e farmacologiche, in procedure burocratiche; e per questo non compare neanche nei manuali di etica medica. La storia della sofferenza che racconta l’antropologia medica, invece, è costituita da interpretazioni qualitative, da testimonianze personali, da relazioni umane che non solo coinvolgono medico e paziente, ma che chiamano in causa anche le realtà familiari e sociali del malato. La sofferenza – chiarisce Kleinman – è un’esperienza interpersonale, un vissuto intersoggettivo, con un’evoluzione culturale che varia a seconda del sistema sociale di guarigione all’interno del quale è inserita. La sofferenza fa parte della vita di tutti, eppure si sostanzia in modo sensibilmente diverso: l’esperienza sociale della sofferenza è molto diversa in una città metropolitana o in un villaggio rurale, in una democrazia occidentale o in una dittatura comunista, in una famiglia ricca o in una periferia povera, in una classe dominante o in una comunità marginalizzata.
L’esperienza soggettiva della malattia non è univoca ma è sempre socialmente modellata. Stando al margine tra culture e vite diverse, è più semplice accorgersi delle differenze sociali che infl uiscono sulla narrazione della sofferenza: la medicina non è mai indipendente dal contesto storico in cui si sviluppa, non è una pratica senza tempo e senza spazio. La pratica della cura è sempre una modalità storicizzata del nostro stare al mondo, intrecciata alla cultura, alla morale e alla politica. E il confronto transculturale con la società cinese – dove la famiglia è il mezzo di realizzazione dei singoli membri, ma anche il progetto collettivo di chi è stato e di chi sarà, di antenati e discendenti – è utile e necessario per ripensare la sofferenza come esperienza intersoggettiva. Il locus paradigmatico della sofferenza in Occidente è sempre stato “lo spazio privato della persona che ha un problema: l’eroe caduto, il peccatore, il lebbroso, il coniuge in lutto, l’epilettico, la vittima”. Dalla tragedia greca alla Bibbia, da Shakespeare alla letteratura contemporanea, in Occidente la sofferenza è stata rappresentata come un affare personale. La cultura cinese, invece, “ha eletto la famiglia come spazio intersoggettivo delle relazioni e locus della sofferenza”.
Una cultura della cura non può accontentarsi di una diagnosi e di una terapia, nella cura devono rientrare altri aspetti che coinvolgono tutte le persone che – anche se per via indiretta – sono state toccate dalla sofferenza. Il medical drama non può essere spersonalizzato o decontestualizzato: implica uno storytelling complesso che comprende trattamenti medici e operazioni simboliche, blasonati scienziati e popolari guaritori, sindromi visibili e patologie psicosomatiche. “Il passaggio da un soggetto umano ricco di esperienza a un soggetto disumanizzato, caricatura di esperienza” è l’errore che siamo chiamati a evitare. Ciascuno nel suo campo, dentro e fuori dallo spazio medico. I criteri oggettivi per valutare la salute pubblica sono insufficienti, non contengono le tante sfumature della sofferenza che non hanno voce nel campo della biomedicina, ma che condizionano in modo significativo la vita delle persone. Kleinman lo dimostra raccontando i casi di pazienti affetti da dolore cronico: una sofferenza invalidante che spesso non è tracciata da una tac o da una risonanza magnetica, un dolore che “viene messo in dubbio dai professionisti della salute” ma che non è meno reale e impattante degli altri. Il dolore cronico raccontato dai pazienti intervistati da Kleinman – per un progetto di ricerca condotto sia negli Stati Uniti che in Cina – mette in crisi la pretesa di individuare un unico percorso ‘naturale’ della malattia. Il decorso della sofferenza non si manifesta in modo univoco per tutti.
La sofferenza cronica di questi pazienti dimostra, al contrario, che la malattia è un’esperienza unica e personale, che sfugge alla concettualizzazione scientifica. La narrazione del dolore che si sviluppa in queste pagine è una forma di resistenza contro la delegittimazione violenta del sistema socio-politico. Dai mal di testa cronici di un ventenne che ha vissuto la rivoluzione culturale in un piccolo villaggio rurale cinese alla testimonianza della ricercatrice trentenne con un PhD in biochimica la cui carriera accademica è paralizzata da dolori psicosomatici: i casi presentati da Kleinman compongono un mosaico che invita ad andare oltre il linguaggio asettico e disumanizzante della scienza medica che pretende di tracciare un confi ne oggettivo tra salute e malattia. Giustamente Kleinman cita un famoso passo di Michel de Montaigne: “noi siamo, tutti, un insieme di pezzi. E di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento va per conto suo”. L’unico senso possibile della cura è dare importanza a quei pezzi disordinati e dispersi, dare voce alle sofferenze che rimangono al margine, inascoltate. È dal confine che comincia la guarigione.
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