1. Nei giorni scorsi è stata depositata l’ord. n. 122/2022, con cui la Corte costituzionale ha differito di altri sei mesi la dichiarazione d’illegittimità dell’ergastolo ostativo. Contestualmente, in un’intervista al Corriere della Sera del 16 maggio, il Presidente della Consulta Giuliano Amato ha spiegato le ragioni di questo secondo rinvio, dopo quello già disposto un anno fa con l’ord. n. 97/2021. Deposito e intervista non hanno suscitato particolare attenzione, quasi si trattasse di un tornante meramente processuale: una di quelle tecnicalità che non appassionano nessuno, tranne gli addetti ai lavori.

Il “rinvio del rinvio”, invece, è una novità giurisprudenziale che, per importanza, trascende il suo stesso oggetto: «quel manicheismo che esiste ancora», benché già accertato come incostituzionale, secondo cui «o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi» (Amato dixit). È un inedito assoluto che, nelle forme soft di un nuovo slittamento dell’udienza all’8 novembre, cela un prolungato arresto cardiaco del principio di legalità costituzionale. E quando c’è un infarto al cuore della Costituzione, le sue conseguenze possono diffondersi pericolosamente in ogni dove.

2. Secondo Costituzione, è la Corte ad accertare l’illegittimità della legge. La sua decisione è il fatto giuridico cui deve seguire la cessazione di efficacia della legge illegittima. Tale effetto, generale e (di regola) retroattivo, decorre dal giorno successivo alla pubblicazione in gazzetta ufficiale della dichiarazione d’incostituzionalità. Non è, dunque, la volontà di quindici giudici riuniti a Palazzo della Consulta che determina il venir meno della legge dall’ordinamento, e quando: è la Costituzione a comandarne la rimozione immediata.

E la Costituzione s’impone a tutti, Corte costituzionale compresa. Differire la dichiarazione d’illegittimità impedisce che scatti questo automatismo costituzionale. Se poi il rinvio è reiterato, si allontana ancor più nel tempo il fine stesso del sindacato di costituzionalità: vietare l’applicazione di una legge illegittima, a cominciare dai fatti oggetto del processo nel corso del quale è sorta la quaestio. Può la Consulta derogare, di nuovo, a questa regola costituzionale?

3. Nella vicenda in esame, la richiesta di un ulteriore rinvio, auspicato dalla Commissione Giustizia del Senato, è stata veicolata in udienza dall’Avvocatura dello Stato. A suo dire, essa risultava «necessaria» in ragione dell’iter parlamentare in corso «che fa ritenere prossima» l’approvazione di una nuova legge «in attuazione dei principi» già stabiliti nella precedente ord. n. 97/2021, in cui la Corte aveva accertato (ma non dichiarato) l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo. Giuridicamente, sono ragioni vaghissime.

La Corte costituzionale è chiamata a sindacare ciò che il legislatore ha fatto o non ha fatto, non ciò che potrebbe fare e, forse, farà: se la Corte ha già giudicato illegittima la disciplina in vigore, come può dirsi addirittura «necessaria» un’ulteriore udienza? Esercitando la funzione legislativa, le Camere sono del tutto autonome nel decidere se e quando approvare una legge: su quale base, allora, la si pronostica addirittura come «prossima»? Quanto al disegno di legge approvato alla Camera e ora in discussione al Senato, è «una controriforma che non recepisce i rilievi della Consulta» (Fabio Fiorentin, Il Sole-24 Ore, 9 aprile) e le cui norme, peggiorative di quelle in vigore, non troverebbero neppure applicazione nel giudizio sospeso, come impone il principio di irretroattività penale. Ciò nonostante, la Corte costituzionale ha accolto l’istanza per un rinnovato differimento e lo ha fatto con un’ordinanza-bis «passata senza alcuna opposizione», come rivela il Presidente Amato. Sulla base di quali ragioni costituzionalmente apprezzabili?

4. Nella sua stringatezza, la lettura dell’ord. n. 122/2022 non aiuta a capire: vi si replicano – in bella copia – le motivazioni evanescenti addotte dall’Avvocatura dello Stato, nel contempo confermando «le ragioni che hanno indotto questa Corte a sollecitare l’intervento del legislatore». È l’intervista del Presidente Amato a esplicitarne la ratio decidendi: «La Corte costituzionale non dà ordini e rispetta il Parlamento». Dell’avvenuta approvazione alla Camera «non potevamo non tenerne conto», perché «far valere una scadenza e non dare peso ai lavori in corso», specie in questioni così complesse, «indebolirebbe» la credibilità della Consulta «rispetto alla leale collaborazione» con il legislatore.

È il principio di cooperazione tra poteri, dunque, ad essere invocato. Ma una collaborazione è davvero leale solo se si svolge dentro il perimetro costituzionale, non fuori di esso. Invece, in questa vicenda, il modo in cui la Consulta ha concretamente declinato la cooperazione con le Camere, risulta – a un tempo – costituzionalmente sbilanciato e istituzionalmente asimmetrico. Vediamo perché.

5. Rinviando nuovamente l’udienza, non si è tutelata la discrezionalità del legislatore, semmai la sua persistente inerzia. Un’inerzia che risale, infatti, a ben prima di dodici mesi fa: era il 5 ottobre 2019 quando – in via definitiva – la Corte di Strasburgo condannava l’Italia in ragione di una «pena perpetua non riducibile» attraverso l’istituto della liberazione condizionale. È da allora che il Parlamento è moroso nel risolvere il «problema strutturale» dell’ergastolo ostativo. Da qui alla prossima udienza non possono escludersi decessi tra i 1277 ergastolani ostativi (su 1822 condannati a vita), molti dei quali anziani, malati e con un pregresso detentivo di oltre ventisei anni, dunque nelle condizioni di poter aspirare alla liberazione condizionale. Moriranno in galera, da cui mai sono usciti, in nome di prioritarie esigenze investigative e di difesa sociale. Eppure è un principio costituzionale – riconosciuto dalla stessa Consulta – la «non sacrificabilità della funzione rieducativa sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena» (sent. n. 149/2018).

Ritorniamo al futuro. E ipotizziamo che, all’udienza dell’8 novembre, la Consulta si ritrovi tra le mani l’attesa riforma legislativa. Le regole del processo costituzionale le impediranno di sindacarne seduta stante la legittimità: prima, dovrà restituire gli atti al giudice remittente (la sez. V penale di Cassazione) cui spetta il preliminare vaglio circa l’applicabilità e la costituzionalità della normativa sopravvenuta. La conseguente stasi processuale andrà così a cumularsi a quella seguita ai due rinvii decretati dalla Corte, aggravando nel tempo esiti già ritenuti lesivi della Costituzione. Molto concretamente: dilatando i tempi del suo processo, la Consulta prolunga la dissipazione del residuo tempo vitale di ergastolani senza scampo, per i quali ogni giorno che passa è un giorno in più (e non in meno) dietro le sbarre.

6. Più in generale, è il disegno costituzionale che governa gli effetti della dichiarazione d’illegittimità ad uscirne manomesso. L’ord. n. 122/2022 attesta che per i giudici costituzionali, più del tempo (inutilmente) trascorso, conta quello mancante all’approvazione della nuova legge. Ma mentre il primo è oggettivo e misurabile, il secondo è una mera congettura perché l’approvazione di una legge è certa solo quando si compie realmente, mai prima. Tutto, così, si capovolge: la dichiarazione d’incostituzionalità non dipende più da quanto il legislatore ha fatto, ma da ciò che eventualmente farà. E il dies a quo degli effetti dell’accertata illegittimità diventa una variabile subordinata ai ritmi e agli esiti dei lavori parlamentari.

All’interno di una simile dinamica, non può neppure escludersi la possibilità di ulteriori, futuri differimenti. È già accaduto due volte di seguito, perché non dovrebbe ripetersi ancora? «Quando a novembre la Corte si troverà a decidere» – afferma il suo Presidente – «valuterà la situazione e, in assenza di una riforma, affronterà il problema se sancire l’incostituzionalità introducendo un vuoto legislativo che ora abbiamo voluto evitare. A quel punto spetterebbe al Parlamento colmarlo successivamente». Quell’ipotetico «se», più che escludere l’ipotesi di un ennesimo rinvio, l’avvalora. Basterà la minima diligenza al Senato: ad esempio, davanti a una rinnovata navetta parlamentare, perché mai non dovrebbe apparire di nuovo «necessario un ulteriore rinvio dell’udienza, per consentire al Parlamento di completare i propri lavori» (ord. n. 122/2022)?

7. Come sempre accade, mezzi sbagliati stravolgono fini giusti. Se davvero la Corte costituzionale – come dice il suo Presidente – non è «la maestrina del Parlamento», si limiti allora a svolgere la propria funzione di giudice delle leggi, annullando quelle di cui accerta l’illegittimità. E se ragionevoli preoccupazioni di sistema la inducono a temere il vuoto normativo conseguente, attinga alle sue sentenze manipolative che quel vuoto possono evitare. Oppure rinvii (non l’udienza, ma) la pubblicazione in gazzetta ufficiale della sua dichiarazione d’incostituzionalità, preannunciandola con un apposito comunicato, così da consentire nel frattempo un intervento del Governo per decretazione d’urgenza: «ecco. La soluzione c’era. Rapida, efficace e coerente» (Tullio Padovani, Il Dubbio, 11 maggio 2022).

La cautela di un primo rinvio seguito da un secondo rinvio a data fissa, invece, trasforma un monito rafforzato in una scadenza che neppure la Corte mostra di prendere sul serio, figurarsi le Camere. Meglio, allora, evitare che questo precedente faccia precedente, chiudendolo dentro una (infelice) parentesi. La Corte costituzionale ha un’anima divisa in due, politica e giurisdizionale. La sua migliore giurisprudenza nasce sempre quando l’una non prevale sull’altra. In questa neverending story, invece, la ricerca di equilibri politici è stata anteposta alla risoluzione della quaestio. Così facendo, però, l’incostituzionalità differita scade da tecnica a «tattica decisoria» (Michele Massa): una tattica espressione di quella apparente saggezza che – come dice la canzone – troppo spesso è solamente la prudenza più stagnante.