La pazienza del cupo ottimista, il quale sa da sempre di vivere in tempi calamitosi, diversamente dal pessimista che se ne accorge, invece, ogni mattina, viene messa a dura prova da quanti, con supponenza intollerabile, non perdono occasione di ribadire che il «“pacchetto antimafia” post stragi (che ha funzionato e funziona) rischia di essere fortemente indebolito per alcune aperture dell’ergastolo ostativo ai mafiosi non pentiti, con evidenti ripercussioni sullo stesso pentimento, che – in quanto non più indispensabile per ottenere i benefici – risulta ridimensionato sia come rilevanza in sé sia come potenzialità favorevole al collaborante».

Contestualizziamo. Correva l’anno 1992, all’indomani della strage di Capaci, quando nacque il regime cosiddetto dell’«ergastolo ostativo», per escludere dai benefici della liberazione anticipata, dei permessi premio, del lavoro all’esterno, della semilibertà, della liberazione condizionale dopo aver scontato 26 anni di pena, i condannati per reati di mafia, terrorismo ed eversione, che rifiutano di collaborare con la Giustizia: se per l’ergastolo comune resta possibile un progressivo miglioramento del trattamento penitenziario, che va di pari passo con la crescita dell’opera di rieducazione del reo, solo la volontà di collaborare, per contro, comproverebbe il distacco del condannato dai legami con l’associazione delinquentesca. La illegittimità costituzionale della normativa in questione è stata reiteratamente percepita come pure ne è stata denunciata l’eterodossia rispetto alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma il percorso per rimuovere il discutibile automatismo istituito tra la collaborazione processuale del condannato e la concessione dei benefici, lungo e variamente accidentato, è ancora lontano dall’essere concluso. In particolare.

La questione di costituzionalità, portata all’attenzione della Corte Costituzionale nell’anno 2003, venne respinta, sostenendo i Giudici che gli ergastolani che rifiutavano di collaborare con la giustizia, esercitavano una propria «scelta» e non erano dunque esclusi definitivamente dai benefici. Nessun automatismo: bastava in fondo che il condannato decidesse di cambiare «idea» sulla volontà di collaborare con la giustizia. Analoga affermazione si ritrova, dopo dieci anni, nella sentenza n. 135 del 2013. Quando, tuttavia, con sentenza n. 149 del 2018 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’art. 58 quater dell’Ordinamento penitenziario che escludeva dai benefici gli ergastolani condannati per sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione da cui fosse derivata la morte della vittima, si aprì, per quanto concerne l’ergastolo ostativo, una prima crepa nel consolidato orientamento della Corte di legittimità delle leggi al riguardo, essendo state riconosciute, altresì, tanto l’irragionevole disparità di trattamento con gli ergastolani condannati per altri reati, quanto l’illegittimità del meccanismo automatico di preclusione previsto dalla legge, senza alcuna valutazione del giudice sul percorso individuale del detenuto.

È stata successivamente la Corte Europea dei diritti dell’uomo, nell’affaire Marcello Viola vs. Italia, nel 2019, a ritenere che la legislazione nazionale in tema di ergastolo ostativo viola l’art. 3 della Cedu, per un verso, affermando che la pena deve sempre mirare alla rieducazione del reo e che vietare a un condannato di reinserirsi nella società lede il principio di dignità umana e, per l’altro, censurando proprio la presunzione di pericolosità del condannato che non collabora con la Giustizia, spiegando che la mancata collaborazione ben può dipendere dal timore di ritorsioni sulla propria vita e sui propri cari e non sempre vale a dimostrare la persistenza dei legami criminali. La Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2019, ha quindi dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, nella parte in cui non consentiva ai condannati all’ergastolo ostativo di avvalersi dei permessi premio, pur in presenza di elementi per escludere l’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata o il pericolo del loro ripristino, così minando irreversibilmente la presunzione assoluta di pericolosità del reo che rifiuta di collaborare con la giustizia e aprendo, dunque, alla possibilità che il giudice compia una valutazione caso per caso.

Investita, finalmente della questione se l’esclusione del beneficio penitenziario ai condannati all’ergastolo per reati di mafia, che non abbiano collaborato con la Giustizia, sia contraria all’art. 27 della Costituzione e all’art. 3 della Cedu, la Corte Costituzionale, con ordinanza n. 97 del 2021, rispettosa sul piano del dialogo istituzionale ed equilibrata nel salvaguardare le esigenze di tutela della collettività, evitando di indebolire il sistema di contrasto della mafia, ha scelto di rinviare la decisione, per dare tempo al Parlamento di porre mano a una riforma, che sappia tener conto della particolare natura dei reati mafiosi, e della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia. È qui che s’inserisce il «testo base» per la riforma dell’ordinamento penitenziario in materia di ergastolo ostativo licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera lo scorso 17 novembre, maldestro tentativo di neutralizzare le spinte riformatrici della Corte Costituzionale e della Corte di Strasburgo: i detenuti condannati all’ergastolo potranno accedere ai benefici penitenziari (come l’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio o le misure alternative alla detenzione), anche senza collaborare con la giustizia, «purché oltre alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione al percorso rieducativo, dimostrino l’integrale adempimento delle obbligazioni civili e delle riparazioni pecuniarie derivanti dal reato o l’assoluta impossibilità di tale adempimento»; al contempo, tuttavia, servirà l’accertamento di «congrui e specifici elementi concreti, diversi e ulteriori rispetto alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere con certezza l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso», compreso il «pericolo di ripristino» dei contatti.

Sic stantibus rebus, fingendo di non notare che, col «testo base» in discussione si prospetta, a tacer d’altro, l’innalzamento della soglia di certezza della prova, anche negativa, diabolica e inarrivabile per il recluso, in chiaro conflitto con il senso delle misure premiali ancorate a un giudizio prognostico impossibile da cristallizzare in verità assoluta, gli archimaestri del coté degli addetti alla repressione, con la proposizione da cui si son prese le mosse, enunciano un dogma che urta contro la logica e contro i fatti, dunque da dover essere imposto come motivo di fede e via della salvezza. Un dogma che tradisce un luogo dell’anima, a chiamare così situazioni radicate nel cervello e nelle midolla, sopravvissuto ai cambiamenti, dalle lingue all’ambiente geologico, avvenuti negli ultimi secoli sul continente europeo: il «metodo inquisitorio».

Al fondo di esso, infatti, risuona l’eco del pensiero dell’abate di Vayrac, secondo cui l’imputato è libero di «confessare la propria colpa, chiedere perdono e sottomettersi a certe espiazioni religiose (…) digiuna, prega, si mortifica, anziché andare al supplizio recita dei salmi, confessa i peccati, sente la messa, lo scusano, lo assolvono, lo restituiscono alla famiglia e alla società. Se il delitto è enorme, se il colpevole si ostina, se bisogna versare del sangue, il prete si ritira e non riappare che per consolare la vittima sul patibolo» (J. De Maistre, Oeuvres complètes, Lyon Paris, 1931, 3, p. 325 s.). Insomma, è duro a morire l’assioma gnoseologico, colpevole o innocente, l’imputato sa quanto basta; bisogna che lo dica e non essendo più esperibili tecniche brutali ad eruendam veritatem, opportunamente stimolato con compensi allettanti, fino all’impunità, commisurati agli apporti, tanto più svela tanto meglio esce.

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Giusfilosofo e magistrato in pensione