La domanda non è soltanto se l’Europa, facendo tesoro della lucida analisi di Mario Draghi, sopravviverà alle sfide strutturali e culturali del mondo contemporaneo. La domanda è se sopravviverà alla politique politicienne che spesso l’ha immobilizzata. Certo è significativo che, mentre Draghi suona la sveglia al Continente, partiti e governi europei appaiano impegnati in un lungo e inesausto negoziato sui nomi della nuova Commissione. Anzi, all’apparenza, sul nome del candidato italiano, di Raffaele Fitto, per il quale Ursula von der Leyen sembra pensare a un incarico forte, una vicepresidenza esecutiva con delega all’economia.

Una questione di poltrone

“Portare un esponente dell’Ecr nel cuore della Commissione significherebbe perdere il sostegno progressista”, minacciano i socialisti. I quali, insieme a verdi e liberali, ricordano del resto come Giorgia Meloni non abbia votato la riconferma di von der Leyen, mettendosi fuori dalla maggioranza di Strasburgo. Ma la sostanza dello scontro, a dirla brutalmente, sembra piuttosto una questione di poltrone. Con il Ppe che vuole quattordici commissari e il Pse che ne chiede sei, uno in più di quanti von der Leyen è intenzionata a dargli.

I veti a Fitto appaiono cioè un pretesto. E forse è pretestuosa anche l’accusa delle opposizioni italiane a Meloni di aver isolato il paese, provocando la “totale irrilevanza di questo governo in Europa” (Schlein) e relegando “l’Italia in panchina” (Conte). Siamo sicuri che sia così?

Il voto europeo e la politica miope

Dopotutto il voto europeo del giugno scorso, sebbene abbia confermato una maggioranza di centrosinistra, ha visto il forte calo del Pse, ridotto ormai al 19% dei seggi di Strasburgo, e la crescita delle destre euroscettiche e delle destre radicali. Replicare, perciò, in un simile quadro, la governance precedente è certamente legittimo sul piano dei numeri, ma può rivelarsi politicamente miope. Con una guerra in corso sul proprio suolo, con l’aggressività antioccidentale delle autocrazie, con il rischio del disimpegno americano, con le debolezze denunciate da Draghi, l’Europa è chiamata a scelte di straordinario impegno. E vorrebbe perciò un’unità di intenti, come mai è riuscita a realizzare in ottant’anni di vita.

Sarebbe il momento di fare fronte comune, di costruire ponti tra Stati, nazioni e storie tuttora riluttanti a un destino comune. Il momento di una Union Sacrée continentale. E sembrerebbe questo, oggi, il compito di Ursula von der Leyen. Sarebbe vitale che nella nuova Commissione potessero dialogare e lavorare assieme l’Europa occidentale e l’Europa orientale, il Nord e il Sud, i frugali e le cicale, i progressisti e le destre, i federalisti e i sovranisti.

Il ruolo strategico dell’Italia

E in questa prospettiva, a dire il vero, l’Italia non sembra fuori gioco. Al contrario. Se l’obiettivo di von der Leyen è la costruzione di un governo europeo che non sia sbilanciato a sinistra e che cioè non ignori una destra rappresentativa di vasti settori dell’opinione pubblica, allora bisogna riconoscere che l’attuale profilo politico dell’Italia può diventare strategico. Bisogna riconoscere che, sebbene abbia votato contro la “maggioranza Ursula”, o proprio in grazia di quella scelta controversa, Meloni sembri oggi la carta giusta da giocare come pontiere, a Bruxelles, tra le forze di centrosinistra e le componenti moderate della destra. È questo, probabilmente, il progetto che accomuna von der Leyen e Meloni e che ha permesso di non spezzare il rapporto politico esistente tra le due. Ed è questo l’atout che permette a Meloni di chiedere un incarico strategico per Fitto e cioè per l’Italia.

Naturalmente, resta da vedere come finirà la querelle. Se prevarranno gli equilibrismi dei partiti e le chiusure nazionali o se la nuova Commissione esprimerà la consapevolezza delle sfide “esistenziali” che attendono l’Europa e l’impossibilità di rispondere a quelle sfide in ordine sparso. Il che, per quanto riguarda i partiti italiani, ripropone l’alternativa tra conflitto e dialogo. Tra il muro contro muro e il tentativo di comprendere le ragioni (e le constituency) dei propri avversari. Tra interessi elettorali e interessi nazionali.