Matteo Motterlini, docente di filosofia della scienza all’Università San Raffaele di Milano, è il più attento critico delle gabbie mentali. Quelle sovrastrutture del pensiero, quelle trappole in cui finiscono per infilarsi le idee che poi, inesorabilmente, trovano la morte per asfissia.

Professore, siamo davanti a una sinistra che procede per antinomie: si afferma una identità non in forza delle proprie idee ma come opposizione alle idee dell’altro.
«Uno dei meccanismi psicologici più rilevanti per comprendere la crisi della sinistra è il groupthink, il pensiero di gruppo. Quando un’idea diventa dominante all’interno di uno schieramento politico, il dissenso si fa rischioso: chi mette in discussione i dogmi ideologici rischia di essere emarginato. Il risultato? Una chiusura autoreferenziale che soffoca il dibattito interno e impedisce di affrontare le proprie contraddizioni».

Quali sono, in particolare, le contraddizioni della sinistra?
«Da un lato, la sinistra promuove l’uguaglianza e l’inclusione. Dall’altro, fatica a conciliare questi ideali con la necessità di definire confini chiari su questioni identitarie e sociali. Spesso crede di rappresentare il “pensiero giusto”, sottovalutando la diversità di opinioni all’esterno ma anche al proprio interno. È il cosiddetto effetto falso consenso: la tendenza a sopravvalutare la diffusione delle proprie idee e a ignorare le voci dissonanti».

Un bias da echo-chamber, oggi diffuso…
«A complicare il quadro c’è la correlazione illusoria, ovvero la tendenza a vedere connessioni causali tra fenomeni che in realtà non sono direttamente collegati. Per esempio, attribuire al neoliberismo l’origine di ogni forma di disuguaglianza economica può portare a semplificazioni fuorvianti, trascurando fattori altrettanto determinanti, come le trasformazioni tecnologiche o i cambiamenti demografici».

Anche la destra – perfino quella meloniana di oggi – è chiusa in un suo perimetro, rischia di stagnare nella sua autoconservazione?
«Sì. Se la sinistra tende a chiudersi nel proprio dogmatismo, la destra è spesso vittima dell’effetto status quo: la tendenza a preferire che le cose rimangano come sono, anche quando il cambiamento potrebbe portare benefici. Questo atteggiamento la rende meno incline ad adattarsi alle trasformazioni sociali e culturali, portandola a difendere rigidamente tradizioni e assetti consolidati, anche quando la realtà li mette in discussione».

Cos’altro imputa alla maggioranza, in termini di comunicazione, di approccio?
«Un altro bias che limita la capacità della destra di espandere la propria influenza è l’illusione di controllo, la convinzione di poter risolvere problemi complessi con soluzioni semplici e dirette. Un esempio evidente è la gestione della sicurezza o dell’immigrazione: spesso vengono proposte misure drastiche, senza considerare la complessità delle dinamiche economiche e sociali che stanno alla base dei fenomeni. Il risultato è una strategia miope, che rischia di produrre effetti opposti a quelli desiderati».

E veniamo alle risposte. Cosa può – e deve, dovrebbe – fare la politica per uscire dalle sue trappole?
«Per uscire da queste trappole cognitive serve un esercizio di metacognizione: la capacità di riflettere sulle proprie convinzioni e sui processi mentali che le generano. In politica, questo significa: mettere in discussione le proprie certezze, senza paura di rivedere posizioni che si sono cristallizzate nel tempo. Accettare il confronto con idee diverse, senza ridurre l’avversario politico a una caricatura ideologica. E riconoscere e correggere i propri bias, soprattutto quando portano a decisioni basate su informazioni parziali o su pregiudizi consolidati».

Giuste considerazioni. Ma chi conosce la politica sa quanto la politica sia chiusa nel suo mondo, autoreferenziale…
«Sia la sinistra che la destra tendono a ripetere gli stessi errori, prigioniere di automatismi cognitivi che le mantengono chiuse nei propri perimetri ideologici. Superare queste gabbie mentali richiede consapevolezza, apertura e un autentico spirito critico. Ma finché il dibattito resta imprigionato nelle stesse dinamiche di gruppo e nelle stesse illusioni, il rischio è che ciascuno continui a parlare solo ai propri simili, senza mai davvero capire l’altro».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.