Un buffetto di incoraggiamento arriva all’Italia da Strasburgo appena poche ore dopo che uno sconsolato Garante per le persone private della libertà Mauro Palma lascia l’incarico dopo sette anni lanciando l’ennesimo allarme sul carcere e il permanente tragico sovraffollamento. L’Italia, dice il Consiglio d’Europa, è uno dei sette Paesi che hanno registrato un “aumento significativo” dell’uso della libertà vigilata. La misura di sicurezza è infatti aumentata del 6% tra il 2020 e il 2021, tanto che al 31 dicembre scorso il numero di persone sottoposte a libertà vigilata (93.415) superava di 40.000 unità il numero dei detenuti. Il dato è derivato dalla ricerca “Space II” condotta ogni anno dall’Università di Losanna sulle misure alternative al carcere adottate dagli Stati membri del Consiglio d’Europa.

Numeri che, presi in sé, paiono davvero confortanti. Anche se poi la stessa ricerca osserva che tra il 2019 e il 2020 l’aumento del ricorso alla libertà vigilata era stato del 10%. E anche se occorre ricordare che stiamo parlando dei due anni appena trascorsi, che sono stati un periodo veramente anomalo per tutti, cittadini liberi o detenuti. L’emergenza per l’epidemia da Covid è stata affrontata in modo sensato prima di tutto dal procuratore generale della cassazione Salvi, che aveva invitato i magistrati ad arrestare di meno, e poi dallo stesso ministro della giustizia Bonafede con il progetto “Cura Italia”, e infine dal capo del Dap Basentini con la famosa circolare in cui sollecitava la sospensione dell’espiazione della pena per detenuti anziani o malati, provvedimento che alla fine gli costerà il posto. E poi la situazione è cambiata e si è tornati ai numeri precedenti. Tutto quel che è accaduto nel biennio che sta alle nostre spalle va dunque letto e riletto senza gli occhiali dell’emergenza. Facendo però anche una semplice constatazione: se Salvi, se l’attuale ministro della giustizia, se l’attuale capo del Dap rendessero permanenti quegli allarmi e soprattutto quel modo di ragionare, i numeri delle persone recluse sarebbero ben diversi.

Sempre che sia poi così rilevante stare attaccati a numeri e percentuali per valutare che cosa è il carcere oggi. Perché bisognerebbe prima di tutto afferrare il bandolo da cui parte il filo rosso che percorre le vite delle persone cui viene tolta la libertà. Parliamo della giustizia e del processo, che sono la nuova violenza di Stato, quella che ha preso il posto della tortura, dello squartamento, della pena di morte. È un problema culturale. Nessuno, o quasi, oggi potrebbe dirsi d’accordo sull’amministrazione della giustizia come veniva esercitata nel seicento, così come sulle pene corporali o sulla schiavitù. Però, se alle stesse persone chiediamo di pronunciarsi sull’abolizione dell’ergastolo, e prima di tutto su quello cosiddetto “ostativo”, cioè quello che impedisce a determinati soggetti di fruire dell’applicazione di misure alternative, ecco che sotto sotto vedremmo rispuntare quel desiderio di chiudere la cella e buttare la chiave che è poi la cultura del “monopolio del carcere” come applicazione prevalente se non unica della pena.

Ma aiutiamoci ancora con i numeri per constatare come questa cultura del “monopolio del carcere” sia quella prevalente nel corpo della magistratura. L’ostilità da parte dei dirigenti sindacali delle toghe nei confronti di un quesito referendario che cercava di porre limiti alla custodia cautelare. E la constatazione, rilevata dai dati forniti due giorni fa dal Garante, che un terzo della popolazione carceraria è tuttora composta da persone non ancora processate e innocenti secondo la Costituzione. Due elementi espliciti di questa mentalità, che esplode ogni volta in cui, davanti a clamorose assoluzioni, ascoltiamo l’ipocrita lamento di chi chiede le scuse degli avversari politici. Ma la questione non riguarda gli innocenti e i colpevoli. Riguarda il diritto all’integrità del proprio corpo, al suo bisogno di essere libero. Soprattutto in assenza di condanna.
Ha qualche senso il fatto che ci siano in questo momento nelle prigioni italiane 1.319 persone che sono rinchiuse perché condannate a una pena inferiore a un anno e altre 2.473 a meno di due? Mauro Palma nella sua relazione ha giustamente definito “superfluo…chiedersi quale possa essere stato il reato commesso che il giudice ha ritenuto meritevole di una pena detentiva di durata così contenuta”.

È vero, perché quel che conta è il fatto che il giudice che ha preso la decisione sa perfettamente che quei pochi mesi di prigionia non potranno che cambiare in peggio la vita di quel condannato, destinato non certo alla rieducazione prevista dalla Costituzione. Ma nel migliore dei casi destinato alla noia, alla perdita di minuti, ore e giorni che una misura alternativa al carcere avrebbe potuto far utilizzare in modo migliore. Per non parlare dei famosi “residui di pena”. Parliamo di persone perfettamente reinserite nella società e nel mondo del lavoro, chiamate improvvisamente, nel momento in cui una sentenza diviene definitiva o viene perfezionato un ricalcolo, a consegnarsi a un cancello che si apre su un mondo separato, che non è più violento in senso letterale, ma violento nella sua inutilità e nocività.

Ecco perché i dati sul carcere, il suo perenne sovraffollamento, i suicidi, le patologie psichiche sempre trascurate, la tossicodipendenza volutamente ignorata, vanno giustamente sempre raccontati e segnalati con un certo allarme nel quadro del loro punto di partenza, il processo. Pur senza nascondere nessun dato di realtà. Anche perché, se i posti per “alloggiare” dignitosamente i prigionieri sono cinquantamila e ne devi stipare quattromila in più, si sta stretti e scomodi. E se sei malato o comunque fragile, diventi una persona a rischio. E ventinove suicidi (con altre diciassette morti da accertare) dall’inizio dell’anno sono un dato pazzesco, una cosa da strapparsi i capelli dalla disperazione. E aggiungiamo anche che sono tante le persone di buona volontà che ogni giorno si adoperano per migliorare il carcere e la vita di chi vi alloggia. A partire dalla ministra Cartabia, che si appresta a inaugurare con il collega Colao due laboratori per attività nel settore delle telecomunicazioni nelle carceri di Torino e Cagliari, con importanti progetti per il reinserimento sociale attraverso il lavoro.

Così come riteniamo fondamentale il fatto che nelle carceri italiane si dedichi del tempo allo studio, specialmente nel settore dei giovani adulti e degli stranieri. Anche se è sconvolgente apprendere dalla relazione del Garante che nell’anno passato ben 3.385 reclusi, di cui oltre 300 italiani, hanno seguito corsi di alfabetizzazione. Cioè non sapevano leggere né scrivere. Ma altri 4.000 hanno frequentato corsi delle scuole elementari e medie, e poi 6.000 sono andati alle superiori e circa 1.200 all’università. Cui vanno aggiunti coloro che hanno frequentato corsi professionali che hanno aperto loro la strada verso un futuro da uomini e donne liberi e possibilmente reinseriti con un lavoro. In trentanove si sono persino laureati! Ma stiamo parlando sempre di buona volontà, cioè di aggiustamenti sul punto terminale di quel filo rosso che parte dal processo e da quella cultura del “monopolio del carcere” come unica forma non solo di applicazione della pena ma anche come soluzione della devianza e dei conflitti sociali. È lì che andrebbe invece affondato il bisturi di una vera rivoluzione copernicana, oggi più che mai indispensabile.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.