Nelle 46 pagine di motivazioni depositate presso la Corte d’Assise di Massa si legge chiaramente: «Per trattamenti di sostegno vitale non significa necessariamente ed esclusivamente essere dipendenti da una macchina, ma deve intendersi anche qualsiasi tipo di trattamento sanitario, indipendentemente dal fatto che venga realizzato con terapie farmaceutiche o con l’ausilio di strumentazioni mediche. Compresi anche la nutrizione e l’idratazione artificiale». È l’avvocato Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, a rendere noti i motivi che hanno portato all’assoluzione, lo scorso 27 luglio, di Marco Cappato e Mina Welby.

I due erano stati accusati di istigazione e aiuto al suicidio ma assolti perché «il fatto non sussiste». Welby e Cappato, rispettivamente copresidente e tesoriere dell’associazione, erano finiti a processo per la morte di Davide Trentini, 53 anni, malato di sclerosi multipla da quanto ne aveva 27, deceduto il 13 luglio 2017. Nell’aprile dello stesso anno Trentini decise di metter fine alle sue sofferenze in Svizzera ricorrendo al suicidio assistito. In quell’occasione Mina Welby fornì aiuto per redigere la documentazione necessaria, accompagnandolo poi fisicamente, mentre Marco Cappato lo sostenne economicamente. Nonostante la vita di Trentini non fosse subordinata all’utilizzo di una macchina, i giudici toscani hanno comunque preso in considerazione il fatto che anche “farmaci e assistenza” possono essere considerati equivalenti. Se si fosse interrotto quel trattamento sanitario Davide sarebbe morto. L’assenza di una macchina aveva spinto la procura a chiedere 3 anni e 4 mesi per i due imputati.

Il verdetto è arrivato qualche mese dopo la storica sentenza della Corte costituzionale sul caso di Fabiano Antoniani, più noto come Dj Fabo. La consulta nel settembre 2019 aveva stabilito che chi aiuta al suicidio coloro che si trovano in condizioni di malattia irreversibile, sono afflitti da sofferenze, sono incapaci di decidere o impossibilitati a vivere senza sostegni vitali, non è punibile. Gallo si è poi scagliata contro la politica che «continua a non assumersi la responsabilità di fare il proprio mestiere, quello di legiferare, ancora una volta è grazie ai giudici che i diritti fondamentali possono essere goduti. Auspichiamo che, anche grazie alla chiarezza delle motivazioni di questa sentenza, quanto prima si sblocchi la paralisi riformatrice delle Camere e si possa arrivare a una chiara regolamentazione del fine vita». Ma a che punto è l’Italia in materia di legislazione? Per molti anni nel nostro ordinamento c’è stato un divieto assoluto per quanto riguarda l’eutanasia, sia attiva che passiva. È stata la pronuncia della Corte di Cassazione sul caso emblematico di Eluana Englaro che ha contribuito a fare un passo in avanti nel riconoscimento dei diritti dei malati.

In quell’occasione la Corte aveva affermato: «come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell’interessato, finanche di lasciarsi morire». Con la legge n. 219 del 2017 sono però stati riconosciuti importanti principi: da quel momento è infatti possibile rifiutare totalmente o in parte qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico, oppure i singoli atti di quella cura. I maggiorenni capaci di intendere e di volere possono, in previsione di un aggravamento, esprimere le proprie volontà sui trattamenti sanitari. La stessa legge ha poi garantito la possibilità di redigere un testamento biologico e di poter beneficiare dell’erogazione delle cure palliative.

L’aiuto e l’istigazione al suicidio sono – ad oggi – reati puniti con la reclusione da 5 a 12 anni. Violazioni che però non si configurano per chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio di chi di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile e intollerabile».