Pietro Folena, di padre italiano e madre francese, ha un curriculum che lo vede ultimo leader della Fgci, i giovani del Pci. Poi per cinque volte deputato. Oggi è curatore di grandi mostre ed eventi artistici tra l’Italia e la Francia, dove si reca ogni volta – col suo doppio passaporto – per fare anche oltralpe il suo dovere di elettore.

Cosa ci dice la crisi di governo francese? Ricorda quello che sta accadendo in Germania, l’instabilità permanente?
«Le due crisi, francesi e tedesche, sono due tasselli del cocomero. Ci dicono che il frutto europeo sta andando a male».

Con la caduta di Barnier cosa succede?
«È la cronaca di una morte annunciata. Il suo governo era nato dopo un voto popolare in cui l’alleanza della sinistra, il Front Populaire, aveva avuto una maggioranza relativa, e che solo grazie alle desistenze il partito di Macron aveva salvato la pelle con un’acrobazia degna del miglior Machiavelli».

E tuttavia non ha retto…
«Tuttavia, anziché scegliere un nome suggerito da quel voto popolare ha preferito rivolgersi a un’alchimia, come quella di Barnier, finendo sotto il fuoco incrociato della sinistra e del Rassemblement National, che insieme hanno – come si è visto – i voti per far cadere ogni governo. Peggiorato il clima, il RN ha colto l’occasione per staccare la spina. Poteva succedere in ogni momento».

E adesso cosa può succedere?
«Due sono le strade possibili, per Macron. La prima è quella di tener conto, tardivamente, di quel voto popolare di un anno e mezzo fa. E dare l’incarico a una donna o a un uomo di quel fronte vasto della sinistra. La seconda è indire nuove elezioni».

Non vorrà consegnare la democrazia francese nelle mani di Mélenchon?
«Ma non c’è solo Mélenchon. Ci sono i socialisti riformisti di Glucksman, i verdi, i comunisti che non si rivedono nella France Insoumise. Il nominativo che avevano indicato è quello di una donna – una super tecnica – che veniva da esperienze di successo nella Pubblica amministrazione: Lucie Castets. Da lei si potrebbe ripartire. O da un nome espressione del mondo socialista, più moderato, in grado di rendere più digeribile la coabitazione con l’Eliseo».

Oppure andare a nuove elezioni. A giugno, con tutte le incognite del caso.
«Esatto, l’altra strada che si apre oggi è quella di indire nuove elezioni. In cui non si sa chi vince, ma si sa chi perde: Macron. Che non può pensare di riprendere il numero di parlamentari che ha avuto l’altra volta, né di riproporre lo stesso accordo di desistenza. Quello che è chiaro è che siamo alla fine del macronismo».

Diceva Gramsci: il vecchio muore, il nuovo stenta a nascere…
«Sì, il nuovo stenta a nascere ma nel frattempo ha vinto Donald Trump. E l’ondata nera, della destra-destra, va avanti in tutta Europa in modo imponente. L’esito delle elezioni anticipate non si conosce ma la Francia vede terminare un suo ciclo politico».

L’anatra zoppa all’Eliseo. E però Marine Le Pen potrebbe ricevere una condanna che la mette fuori gioco.
«Le coabitazioni nel passato sono state più facili. Il rapporto Chirac-Jospin era tutto sommato buono. La riduzione dei poteri del presidente, se Macron si vedesse braccato, chiuso in una ridotta impraticabile, potrebbe anche portarlo a dimettersi anticipatamente. E d’altronde anche se Le Pen fosse condannata, non lo sarebbe il lepenismo. Che potrebbe perfino avvantaggiarsi di una campagna in cui è entrata in campo la giustizia».

Questa crisi viene da lontano. La Francia non entra in crisi per Macron, ma con Macron.
«Macron ha tentato di rispondere all’esaurimento di un ciclo di stato sociale nazionale dentro al contesto europeo. Un tentativo di risposta che ha consumato le forze politiche più europeiste. Non aver fatto l’Europa federale ma aver limitato a lungo, prima della pandemia, l’Europa al ruolo di controllore rigoroso della spesa, si è rivelato un errore drammatico. Anche per quella stessa Germania che della frugalità aveva fatto un vessillo, e ne è finita strangolata a sua volta».

Alla Francia è mancato un Draghi. E forse per uscire da questa crisi, le servirebbe un De Gaulle.
«Sono entrate in crisi le famiglie politiche tradizionali. I socialisti e i gollisti, i due perni del sistema francese, sono ridotti all’ombra di quel che erano. L’eredità di de Gaulle e Chirac da un lato e quella di Mitterand dall’altro sono state erose da formazioni politiche più radicali. Un fenomeno non solo francese, come sappiamo».

Da cosa deriva la spaccatura dei francesi?
«È un paese che non ha risolto la sua crisi sociale, profonda, tra grandi ricchezze e grande povertà. Spaccato tra una grande capitale e una vastissima, frazionata, debole provincia fatta non tanto di città medie come quelle italiane ma di paesini di campagna».

Ha giocato un ruolo anche l’immigrazione, oggi parti di Parigi sono diventate pericolosissime, è lì che vince il RN.
«In Francia l’immigrazione di massa data a oltre sessanta anni fa. Ci sono due generazioni di nuovi francesi per i quali non sempre ha funzionato l’integrazione: da quando hanno girato il film La Haine ad oggi, il problema, non solo nelle banilieue, è peggiorato. Il  paesino di 1500 persone in cui viveva mia madre aveva trecento portoghesi e quattrocento maghrebini. Perfino lì, il taglio netto tra i gruppi etnici si vede chiaramente. Ha fallito lì, il modello di integrazione, come ha fallito negli Stati Uniti».

Ci vorrebbe un nuovo de Gaulle. O comunque un nuovo gollismo, moderato e centrista.
«Se posso fare una previsione, direi che gli eredi del macronismo e quelli del gollismo che non sono andati con Ciotti, si porranno adesso il tema di interpretare il sentimento popolare, cattolico e liberale per dare vita a un partito di massa vicino alla piccola e media borghesia».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.