Pochi giorni sono passati dalla giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Panchine e scarpe rosse, lunghi monologhi, appelli e racconti di violenza fisica fino ai femminicidi: il 25 novembre è l’occasione per passare in rassegna tutto questo. Simboli forti, importanti, ma ci sono anche altre violenze sotto gli occhi di tutti e che purtroppo si ripetono tutti i giorni come se fosse una cosa “normale”. Una di queste è inviare la foto del pene in chat a donne sconosciute. Poche possono dire di non averne mai ricevuta una.

Ed è questo che è successo anche a Flavia, 34enne napoletana, con la passione per il racconto sui social. Flavia in un pomeriggio qualunque ha ricevuto un messaggio privato su Instagram. Spesso i follower le chiedono consigli in privato e lei è ben lieta di rispondere. Così ha aperto il messaggio arrivato da un contatto sconosciuto e si è trovata davanti la testa rossa di un glande. Sotto il numero di telefono e frasi oscene. Il tutto ovviamente non richiesto.

Disgustata per l’accaduto ha telefonato alla Polizia Postale per chiedere come fare a denunciare l’accaduto che è a tutti gli effetti una molestia sessuale proprio per via del carattere indesiderato e non richiesto. Il consenso è fondamentale, non solo nelle relazioni quotidiane, ma anche negli spazi digitali e il fatto che queste foto ricadano nella categoria del “non richiesto” le qualifica assolutamente come violenza. “Sono rimasta molto sorpresa quando la centralinista, una donna, mi ha risposto al telefono e ironizzato dicendo: ‘dica la verità? Vuole sapere a chi appartiene quel numero?’ – racconta Flavia – Io non ci ho trovato nulla da ridere. Comunque mi ha detto di recarmi al commissariato territoriale”.

Flavia, decisa a segnalare quel numero per evitare che altre donne ricevessero la stessa foto o peggio, ha seguito le istruzioni ed è andata al commissariato vicino casa. “Quando sono arrivata il poliziotto che mi ha accolta era divertito dalla vicenda – continua il racconto – Mi ha detto che non avevano i moduli da farmi compilare per sporgere denuncia. Mi ha dato un facsimile dicendomi di tornare a casa, ricopiarlo al computer compilandolo. Perché poi non potevo avere lo stesso foglio da compilare? Poi dovevo anche allegare lo screenshot della chat e la foto del pene ricevuto”.

“La cosa assurda è che c’era tanta gente in fila per denunce di vario tipo, che si possono fare anche online, ma perché per denunciare un reato informatico invece è tutto così difficile?”, si chiede Flavia. A ogni modo la 34enne non si è persa d’animo decisa a portare avanti quella denuncia legittima ma che fino ad ora quelli che aveva incontrato avevano sminuito e deriso. “Non avendo la stampante a casa sono anche dovuta andare dal cartolaio e chiedergli di stamparmi la foto del pene da allegare alla denuncia. Risate anche lì. Mi chiedo: ma se queste foto le avessero ricevuto le loro figlie? Avrebbero riso a crepapelle?”

Insomma dopo telefonate, risate in faccia, persone che le hanno detto che “stai esagerando, per così poco” ed essere tornata per ben due volte in commissariato Flavia è riuscita a fare la sua denuncia. “Intanto l’uomo della chat continuava a mandarmi foto, frasi oscene e addirittura un video di lui che si masturba – continua Flavia – Io non sapendo come agire in queste situazioni non lo bloccavo per poter prima fare la denuncia. Ma intanto nessuno mi ha detto come gestire questa spiacevole situazione. Spero che adesso il suo contatto verrà bloccato e smetta di inviare molestie ad altre donne”.

Il fenomeno delle molestie via chat, sotto forma di foto del pene o frasi volgari è molto comune. Molte donne derubricano la faccenda bloccando i contatti da cui arrivano le oscenità. Qualcuna ci ride su ma si tratta di una violenza a tutti gli effetti. Una sentenza della Cassazione ha stabilito che non si tratta di un reato. Ma è in ogni caso una pratica talmente diffusa da spingere la Rete della Conoscenza Milano, a lanciare una campagna molto chiara: “Il cazzo in chat, anche questa è violenza”. Si tratta di un network indipendente di studenti di cui fanno parte 4 organizzazioni che operano nelle scuole e nelle università pubbliche milanesi: Unione degli Studenti, nelle scuole superiori, Studenti Indipendenti Statale, Studenti Indipendenti Bicocca e Studenti Indipendenti Politecnico nei rispettivi atenei. Il manifesto divulgativo è molto chiaro e rimanda ad altre violenze “quotidiane” che sono spesso sottovalutate ma che sono violenze a tutti gli effetti.

Tra queste c’è “ipersessualizzare una bambina”, “chiedermi se voglio avere figli a un colloquio di lavoro”, “sessualizzare (il mio corpo, la mia pelle, la mia cultura, la mia sessualità)” e “pagarmi meno di un uomo”. La lista continua: “Farmi dubitare di me stessa”, “’Ma hai il ciclo?’ Anche la mia rabbia è legittima”, “Non affidarmi un lavoro perché é da uomini”, “Impedirmi di abortire” e infine “5 mesi di maternità contro 10 giorni di paternità”. Dagli uomini che si appoggiano addosso approfittando della folla nei mezzi pubblici in poi, quante donne possono dire di non averne subita nemmeno una di queste? Il dramma è che se lo racconti ti ridono in faccia.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.