L’Ue appare di nuovo in crisi di identità. La ferita aperta dalla Brexit non si è ancora rimarginata, ma intanto scoppia il caso Polonia, innescato dalla sentenza della locale Corte costituzionale del 7 ottobre. E si tratta di un caso, per certi versi, più grave per le conseguenze che può determinare nei rapporti tra Stati membri e Unione, arrivando a condizionare, per l’appunto, la stessa identità di quest’ultima.

La ragione del contendere è nota. Da anni l’Europa contesta alla Polonia la violazione del diritto europeo, in particolare, in tema di indipendenza della magistratura e dei media, aborto e diritti degli omosessuali. Malgrado la ferma posizione delle istituzioni europee, la Polonia non arretra e afferma la sua legittimazione, quale Stato sovrano, a legiferare su questioni ritenute di massima importanza senza che il diritto europeo possa condizionare l’applicazione delle leggi nazionali. Da qui la sentenza del 7 ottobre con cui la Corte Costituzionale polacca, su ricorso del Governo del Primo Ministro Morawiecky, ha dichiarato, senza mezzi termini, una recente decisione della Corte di Giustizia UE «un tentativo d’interferire nel sistema giudiziario polacco che viola il principio dello stato di diritto, il principio del primato della costituzione polacca nonché il principio del mantenimento della sovranità nel processo di integrazione europea». Lo scontro sul piano politico è talmente cruento che molti osservatori ritengono che l’unica soluzione possibile, a questo punto, sia l’uscita della Polonia dall’Unione.

Al netto della vicenda specifica – che oggettivamente rappresenta un caso estremo e, dunque, particolarmente eclatante – il rapporto tra fonti del diritto europeo e fonti nazionali costituisce da decenni un problema tecnico-giuridico, di grande importanza, tutt’ora aperto. Non è vero, infatti, che, per consolidato riconoscimento, il diritto europeo sia destinato a prevalere sempre, come negli ultimi giorni hanno un po’ superficialmente affermato alcuni esponenti europei e come tanti osservatori poco informati hanno dato per scontato. Anzi, almeno secondo le Corti Costituzionali dei Paesi membri, allo stato è vero esattamente il contrario. Il primato del diritto europeo non è sancito dai trattati europei e, dunque, non è mai stato oggetto di specifico accordo tra gli Stati membri. Dettaglio questo, almeno sul piano politico, non irrilevante. Ad affermare il principio è stata la Corte di Giustizia UE a partire dalle sentenze Costa c. Enel (1964) e Simmenthal (1978), alle quali hanno fatto seguito alcune sentenze di corti costituzionali nazionali. In Italia la più significativa risulta la sentenza Granital del 1984, che ha riconosciuto in capo ai giudici nazionali, nell’ambito del c.d. controllo diffuso finalizzato a rendere effettivo il primato in parola, il potere/dovere di disapplicare una fonte del diritto interno quando in contrasto con una fonte del diritto europeo.

Oggi nell’ordinamento italiano il principio di primazia del diritto dell’Unione è rinvenibile nell’art. 117 della Costituzione, il quale impone allo Stato e alle Regioni di esercitare le rispettive competenze legislative nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo. Tuttavia, trattasi di una primazia relativa. Perché la stessa Costituzione, all’art. 11, offre copertura alle leggi nazionali di ratifica dei trattati UE affermando che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Dunque, l’adesione del Paese alla Ue comporta una auto-limitazione e non una rinuncia alla sovranità nazionale. La delicata questione è stata negli anni ampiamente trattata in dottrina e dalle diverse corti costituzionali dei Paesi membri, che hanno elaborato la teoria dei c.d. controlimiti. E cioè la teoria per cui il meccanismo della disapplicazione delle fonti interne da parte dei giudici nazionali non può operare quando la norma di diritto europeo risulti insanabilmente in contrasto con un principio fondamentale dell’ordinamento giuridico nazionale. In tal caso, infatti, il giudice deve sollevare la questione dinnanzi alla Corte Costituzionale nazionale al fine di consentire a quest’ultima di valutare se il contrasto effettivamente sussista perché, se così fosse, andrà dichiarata l’illegittimità, per contrasto con la costituzione, della legge di adesione alla UE del Paese interessato.

La Corte Costituzionale italiana ha dato un contributo molto importante sul tema. In alcuni casi, dialogando in modo anche aspro con la Corte di Giustizia UE. Come avvenuto di recente, nella nota “vicenda Taricco”, su cui val la pena spendere qualche parola. Tutto nasce da una questione pregiudiziale promossa nel 2014, innanzi alla Corte di Giustizia UE, dal Gup del Tribunale di Cuneo. In sostanza, si chiedeva ai giudici di Lussemburgo se la disciplina nazionale in materia di prescrizione per i reati di frode sull’IVA fosse compatibile con alcune norme dei Trattati europei. A fronte di tale rinvio la Corte UE adottava una decisione (8 settembre 2015, C-105/14) con cui, oltre a dichiarare non conforme ai Trattati la disciplina italiana, ribadiva il primato del diritto dell’Ue. A seguito di tale sentenza, alcuni giudici si sono adeguati e hanno disapplicato la disciplina interna. Altri, invece, hanno rilevato gli estremi per un possibile conflitto della decisione europea con alcuni principi fondamentali del nostro ordinamento e, pertanto, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale circa l’art. 2 della legge n. 130 del 2008, e cioè la legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona, «nella parte in cui autorizza alla ratifica e rende esecutivo l’art. 325, paragrafi 1 e 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea […] come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14». Così, in particolare, la Corte d’appello di Milano, con ordinanza 18 settembre 2015, e la Corte di Cassazione, con ordinanza 8 luglio 2016.

La Corte Costituzionale, investita della questione, ha preferito non pronunciarsi subito nel merito. Così, con l’ordinanza 26 gennaio 2017 n. 24, ha rimesso una nuova questione pregiudiziale alla Corte di giustizia, diretta a ottenere una rimeditazione da parte di quest’ultima della sua precedente sentenza. Nell’occasione la Consulta ha affermato che, nonostante sia sommamente improbabile che il diritto dell’Unione si ponga in contrasto con i principi fondamentali degli ordinamenti degli Stati membri, qualora ciò accada, la Corte costituzionale deve intervenire dichiarando incostituzionale in parte qua la legge nazionale di ratifica ed esecuzione dei Trattati europei. Secondo il nostro Giudice delle leggi, infatti, uno dei principi portanti dell’Unione è quello della leale cooperazione tra gli Stati membri. Il che comporta la necessità di dare rilievo alle ragioni della diversità, che devono trovare contemperamento nell’unità. Tuttavia, prosegue la Corte, «non vi sarebbe rispetto se le ragioni dell’unità pretendessero di cancellare il nucleo stesso dei valori su cui si regge lo Stato membro. […] Il primato del diritto dell’Unione non esprime una mera articolazione tecnica del sistema delle fonti nazionali e sovranazionali.  Esso riflette piuttosto il convincimento che l’obiettivo della unità, nell’ambito di un ordinamento che assicura la pace e la giustizia tra le Nazioni, giustifica una rinuncia a spazi di sovranità, persino se definiti da norme costituzionali. Al contempo la legittimazione (art. 11 della Costituzione italiana) e la forza stessa dell’unità in seno ad un ordinamento caratterizzato dal pluralismo (art. 2 del TUE) nascono dalla sua capacità di includere il tasso di diversità minimo, ma necessario per preservare la identità nazionale insita nella struttura fondamentale dello Stato membro (art. 4, paragrafo 2, del TUE). In caso contrario i Trattati europei mirerebbero contraddittoriamente a dissolvere il fondamento costituzionale stesso dal quale hanno tratto origine per volontà degli Stati membri».

Tutto ciò significa – ancora secondo la Consulta – che l’esigenza di uniforme applicazione del diritto europeo non può spingersi fino al punto da «imporre allo Stato membro la rinuncia ai principi supremi del suo ordine costituzionale».
A fronte di questa netta presa di posizione della Corte Costituzionale italiana, la Corte di Giustizia sembra fare un mezzo passo indietro. Tanto che, con la sentenza 5 dicembre 2017, C-42/17, quest’ultima, di fatto, riconosce la categoria dei principi supremi degli ordinamenti nazionali. Tuttavia, il passo indietro è solo a metà perché nella stessa decisione i Giudici di Lussemburgo ribadiscono che la disciplina nazionale in tema di prescrizione IVA, se produce determinati effetti, va disapplicata e rimettono espressamente la valutazione circa il contrasto ai giudici ordinari, implicitamente escludendo che questi ultimi debbano nuovamente passare dalla Corte Costituzionale. Il che induce la Corte Costituzionale – nella successiva sentenza 31 maggio 2018 n. 115, che chiude la saga Taricco – a contestare tale assunto e ribadire il proprio ruolo di garante accentrato nella tutela dei diritti e dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale italiano.

In definitiva, può dirsi che, come dimostrato anche dalla vicenda Taricco, nel dibattito sul rapporto tra diritto europeo e diritti nazionali un ruolo di primo piano va riconosciuto alla teoria dei controlimiti, la quale non mette in dubbio il principio del primato del diritto dell’Unione, a condizione che questo rispetti i principi supremi degli ordinamenti nazionali. Il problema è che tale teoria è professata dalle corti costituzionali dei singoli Paesi membri, ma non dall’Ue. La qual cosa, come visto, determina un conflitto ai massimi livelli, tra le massime autorità giurisdizionali interessate. La sensazione, rafforzata dal caso Polonia, è che l’Europa oggi non possa più permettersi un conflitto così aspro e di così alto livello istituzionale, né ulteriori ambiguità sul punto. Essa deve affrontare urgentemente la spinosa, ma fondamentale, questione una volta per tutte. E deve farlo con piena assunzione di responsabilità politica da parte di tutti i soggetti coinvolti, a cominciare dai Paesi membri, perché temi così cruciali per l’architettura istituzionale e la stessa identità dell’Unione non possono essere lasciati all’elaborazione giurisprudenziale. Il mondo ha bisogno di una Europa forte. L’Europa, per diventarlo, ha bisogno di trasformare una crisi evidente in un’occasione per muovere decisa verso la piena maturità.