A volte guardiamo all’Europa nel mare agitato del mondo e veniamo presi da scoramento: i tratti culturali appaiono sfocati, la decisione politica lenta e lacunosa, il legame con gli Stati Uniti indebolito ogni giorno di più. Il tutto mentre si rafforzano schieramenti antipolitici, nazionalisti e portatori di promesse illiberali. Ma a guardare meglio, la crisi delle democrazie liberali europee non è un destino e forse gli allarmismi questa volta superano i pericoli. Così suggeriscono le parole di Gianfranco Pasquino, professore emerito all’Università di Bologna e alla Johns Hopkins University, voce tra le più rilevanti della scienza politica nel nostro Paese.

Professore, partiamo dall’inizio. C’è chi dice che tutto si è confuso con il crollo delle culture politiche del Novecento, mai trasmesse al nostro tempo. È così?
«In Italia, le culture politiche cadono con i partiti che ne erano i portatori, oggi scomparsi. Negli altri paesi europei la mancanza è decisamente meno grave. Se ci chiediamo dove in Italia sono la socialdemocrazia o la democrazia non abbiamo risposta. Di tanto in tanto, c’è qualcuno che si dichiara liberale, ma una vera cultura liberale in Italia non c’è. Diverso è per altri Stati europei: in Spagna i socialdemocratici e democristiani esistono. Così in Germania. In Italia, il problema si lega al fatto che i partiti si sono strutturati in modo molto diverso. Sono partiti personali, con scarsa capacità di elaborazione culturale».

Quando incomincia questa fase?
«Con la corsa a occupare gli spazi lasciati vuoti dalla scomparsa dei partiti della prima Repubblica. Oggi siamo rimasti sotto le scorie del berlusconismo e dell’antiberlusconismo. Né l’uno, né l’altro erano culture politiche. Erano qualcosa di più vicino al mondo delle sensazioni, delle emozioni. Oggi quello che rimane è l’antipolitica perché manca ogni cultura politica. Gli elettori non si educano e l’esito è l’astensionismo».

È un problema solo italiano?
«No, ma nemmeno di tutte le democrazie. In Romania, per esempio, alle recenti elezioni ha votato il 72%. Idem in Polonia. In Belgio alle europee del 2024 ha votato quasi il 90%, in Germania il 65%. Si percepiscono le elezioni come momenti significativi».

Si parla di crisi della democrazia liberale in Europa. Nel suo libro più recente, Parole della politica, avversa questa tesi.
«Quando si parla di crisi delle democrazie non si comprende bene il significato delle parole. Prendiamo gli ultimi trent’anni. Quante democrazie sono cadute, trasformandosi in regimi non democratici? Nessuna. Al massimo, si può fare un’eccezione per il Venezuela, già in partenza una democrazia debole. Ci sono democrazie imperfette, questo sì. Ricordiamoci però che sono di gran lunga meglio delle alternative in circolazione, dalla Russia all’Arabia Saudita fino alla Cina…».

Di solito la crisi delle democrazie liberali, che Lei relativizza, viene messa in connessione con la scarsa efficacia delle istituzioni europee
«L’Europa nasce per risolvere le crisi e la storia dimostra che sa farlo. È riuscita a porre termine ai conflitti tra nazioni sovrane, creando il più ampio spazio di libertà e di diritti mai esistito nel mondo. Se prendiamo le distanze dal disfattismo, vediamo che l’Europa sa affrontare le crisi: il Covid è stata una crisi sanitaria senza precedenti e l’Europa l’ha risolta. Prima vi fu la crisi finanziaria del 2008, poi tradottasi in crisi dei debiti sovrani nel 2011, e l’Europa l’ha risolta. Di recente, la crisi energetica con la necessità di affrancarsi dalle forniture russe. Non sottovalutiamo l’Europa. Ora la vera questione è come difenderla, davanti al ripiegamento degli Stati Uniti e ai rischi di aggressione da parte di Putin».

Cosa prevede a riguardo?
«Ci si riuscirà, ma sarebbe meglio parlare di difesa comune piuttosto che di riarmo. Perché non c’è bisogno solo di armi, ma di consenso politico e capacità di coordinamento. Si è fatta la moneta comune, non senza resistenze nazionali. Si può fare anche l’esercito europeo».

Guardando al futuro dell’integrazione europea, come vede il ruolo delle nuove generazioni.
«Sono più europeisti di noi, innanzitutto per abitudine a spostarsi liberamente, a sentire l’Europa come un’estensione del Paese. Alla Johns Hopkins University ci sono giovani da più parti del mondo e vige la regola di presentarsi dicendo da dove si proviene. “Sono un europeo nato a Torino”, ha detto uno studente. Formula perfetta».

A tal proposito, Pier Ferdinando Casini dice che l’unico sovranismo accettabile è quello europeo.
«Bella provocazione, davanti all’emergere dei sovranismi nazionali e alla preferenza trumpiana per un’Europa frammentata. Ma proporrei allora di usare il termine “patria”, perché occorre non lasciare il patriottismo alle destre. Patria è una bella parola, soprattutto se dedicata all’Europa, oggi e domani».

Lorenzo Benassi Roversi

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