Esteri
Iran, il bluff nucleare continua. I due profili di Khamenei e il suo dilemma

Anche il sesto round di colloqui previsto domenica in Oman sulla questione dell’arricchimento del nucleare iraniano è destinato a fallire. L’ambasciatore USA in Israele sostiene che Trump preferirebbe minacciare l’Iran di bancarotta piuttosto che bombardarlo. Il presidente statunitense è convinto che Khamenei prima o poi cederà alle pressioni americane. Trump e si dichiara pronto a prendere misure decisive se i negoziati dovessero fallire.
I due lati di Khamenei
Trump ha sottolineato che l’Iran non dovrebbe arricchire, non dovrebbe avere centrifughe e dovrebbe interrompere l’intero programma nucleare e, se queste condizioni non saranno soddisfatte, non ci sarà alcun accordo. Mentre conduce i negoziati diretti con la facciata ufficiale del regime iraniano, parallelamente dialoga anche con l’ala meno intransigente dei pasdaran nel tentativo di convincerli ad accettare la proposta americana in cambio di una rassicurazione che l’attacco militare israeliano non vi sarà. Intanto l’Iran continuare a barare. Da un lato si finge disponibile al dialogo sul nucleare sostenendo di non essere interessato alla costruzione della bomba atomica, dall’altro lato lavora clandestinamente per arrivare al nucleare militare. Mentre i negoziati sul nucleare tra Iran e Stati Uniti giungono a un punto critico, nuove segnalazioni di attività segrete e allarmanti dell’Iran hanno accresciuto le preoccupazioni globali. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha annunciato in un rapporto speciale che l’Iran ha condotto diversi test esplosivi segreti, che possono essere interpretati solo nell’ambito dello sviluppo di armi nucleari.
Una forte deterrenza
Washington non vuole che l’Iran sviluppi alcun programma nucleare anche civile, ma Khamenei rimane fermo sull’arricchimento. Non ha altra scelta, deve portare a casa un accordo con gli americani che non sia umiliante e che possa preservare il diritto di avere almeno il nucleare civile per poi sviluppare quello militare. Dunque resta fermo nella sua intransigenza anche perché deve preservare il suo potere e il suo ruolo di guida spirituale che pensa di affidare al suo secondogenito Mojtaba, inviso alla corrente più moderata dei pasdaran. Come è noto il potere reale del paese, in particolare quello amministrativo, economico e militare è nelle mani dei pasdaran. La Repubblica islamica vuole assolutamente conservare la capacità di sviluppare il suo programma nucleare perché ritenuto asset fondamentale per attuare la dottrina khomeinista di dominio nella regione e di egemonia nel mondo islamico col ripristino di tutti i luoghi sacri dell’Islam sotto la fede sciita. Vitale per la creazione di una forte deterrenza, indispensabile per espellere dalla regione quello che viene definito con il termine di “nemico sionista” (Israele), considerato un corpo estraneo in quell’area che dovrà vedere l’affermazione dello sciismo considerato Islam puro che un giorno, con l’arrivo del Madhi, il Salvatore, dovrà dominare il mondo.
Khamenei sta vivendo un dilemma
Per Khamenei accettare un accordo che impedisca di arricchire l’Uranio anche per uso civile segnerebbe la sua fine. Sotto la sua guida la Repubblica islamica ha già perso le proprie ramificazioni in Medio Oriente e ora subirebbe un’ulteriore umiliazione da parte americana dopo le sue roboanti dichiarazioni sul proseguimento del suo programma di sviluppo del nucleare “senza il permesso di nessuno”. Khamenei sta vivendo un dilemma: da un lato ha necessità che gli Usa e l’Europa revochino le sanzioni che hanno messo in ginocchio il paese che sta vivendo una crisi energetica senza precedenti, dall’altro lato deve affrontare le numerose minacce al suo potere che giungono sia dal movimento “Donna, Vita, Libertà”, che sta minando uno dei pilastri su cui si fonda la Repubblica islamica, come l’obbligo dell’hijab, sia dalle faide, tra le correnti dei pasdaran che si contengono il potere sia da quella parte del regime che lo vorrebbe spodestare. Per questo motivo prende tempo, spera in tal modo di portare gli Stati Uniti a un accordo che sia quanto più simile a quello stipulato con Obama.
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