Massimo Gibelli è stato a lungo portavoce nazionale della Cgil. Un portavoce stimato ed esperto, di formazione politico-culturale strutturata. Dal suo ufficio al quarto piano di Corso Italia ha contribuito per anni a definire le strategie dei leader che ha visto succedersi, da Luciano Lama a Sergio Cofferati a Maurizio Landini, fintanto che quest’ultimo non ha deciso che il suo lavoro non era più necessario. «Questi referendum puntano a far venire meno il Jobs Act, che toglieva la possibilità di licenziare ai partiti e ai sindacati senza conseguenze legali», riassume.

Cosa succede, Gibelli, se vince il Sì?
«Sindacati e partiti hanno sempre avuto una gestione “leggera” rispetto al personale, la natura fiduciaria del rapporto glielo consentiva. Il Jobs Act aveva limitato il potere di licenziare. Con il referendum si aboliscono quei limiti e si torna, per loro, alla libertà di licenziamento. Riprendono un potere che quelle norme avevano. Ma non è questa la cosa peggiore».

E dunque qual è?
«Che per gli assunti dopo il 2015 le tutele diminuirebbero. Si torna alla Legge Fornero e in alcuni casi addirittura a prima. A dirlo è la stessa Corte Costituzionali nelle motivazioni con cui ha ammesso la consultazione. Se venissero approvati i referendum l’indennizzo per licenziamento si abbasserebbe dalle 36 mensilità del Jobs Act alle 24 della Fornero. In alcuni casi limite anche a 10 mensilità. Un risultato paradossale: lavoratori penalizzati».

E Landini cosa dirà? Che i vuoti normativi vanno riempiti con una legge nuova…
«Dirà che con il secondo referendum (cancellazione al tetto sulle indennità) si permette ai giudici di stabilire il rimborso sulle cause superando i limiti di legge. E qui casca l’asino: per i lavoratori delle imprese più piccole si potrebbero avere rimborsi spropositati che netterebbero a rischio l’impresa stessa. Per le grandi aziende, si arriva al massimo alle 24 mensilità di compensazione. Un indennizzo smisurato per le piccole imprese, minimo per le grandi».

Creando così un effetto sperequativo, una forbice del tutto iniqua?
«Sì, un altro paradosso di questo referendum le cui conseguenze sono sottovalutate se non nascoste. Questi referendum se non inutili, sono addirittura dannosi dal punto di vista sindacale».

E questo riguarda il quesito sul Jobs Act. E gli altri quesiti sul lavoro come li trova?
«Gli altri due sul lavoro mi sembrano poco incisivi. Il limite sui contratti a termine? Ma sono in diminuzione e stanno rientrando nella media europea. Potrebbero benissimo essere oggetto di tavoli di confronto con Confindustria, con la quale la Cgil ha smesso di parlare. Sull’altro, quello sulle responsabilità delle imprese, è addirittura il governo che, se non sbaglio, nell’ultimo incontro ha proposto di modificare la legge. Poi sfido chiunque che non sia del settore a capire i quesiti referendari e le loro conseguenze».

E quindi?
«Come ho detto sono referendum sindacalmente dannosi se non inutili. Dal punto di vista degli effetti pratici, non ne hanno. Ne producono invece tanti e deleteri dal punto di vista politico».

Addirittura! Ci spiega perché?
«Intanto, i referendum hanno spaccato il centrosinistra. Non c’è un partito che vota come gli altri. Poi ha diviso internamente ai partiti della sinistra, e nel Pd come vediamo ha accentuato le rotture tra le diverse anime. E anche tra i Cinque Stelle non sono mancati dubbi. Premesso questo, il quorum è difficilissimo da raggiungere. E allora le faccio tre ipotesi, le tre opzioni che abbiamo davanti: fuga dalle urne, buona partecipazione ma niente quorum, tanti voti e quorum raggiunto».

Mi dica la prima. Quorum non raggiunto, pochi votanti. Che succede?
«Vede, nell’ipotesi in cui la partecipazione risultasse molto bassa, sotto al 20% degli aventi diritto, una parte della sinistra avrebbe buon gioco a imputare alla Cgil la sconfitta. Certo, il sindacato dirà che “non c’è stata informazione, che il governo ha remato contro…” ma il risultato finale è che perderà quota tutto il movimento sindacale. La Cgil non conterà dimostrerà di contare poco o nulla nel dibattito pubblico. E avrà un deficit rilevante perché non otterrà neanche i rimborsi elettorali, che scattano con il quorum. Landini sta dicendo da anni ai partiti che non contano più, che sono in crisi di credibilità, che nessuno più li vota. Adesso se perde male, non avrà più neanche questo argomento: dimostrerà di porre problemi che non contano per la gente, fanno spendere soldi pubblici e alla fine ne ricevono solo un boomerang».

Seconda ipotesi? Mancato quorum ma comunque ampia partecipazione?
«Diciamo che dodici milioni di italiani vanno a votare. Un esito “buono”, per quanto del tutto inutile ai fini referendari. Allora si butta la palla in tribuna: “Noi contiamo più della Meloni, perché i nostri votanti sono più dei suoi elettori”. Farebbero così un salto logico, perché questo referendum non ha una valenza ideologica, ha risvolti scarsamente pratici, ma può permettere ai referendari di accodarsi a Landini: sarà lui, da Corso Italia, a comandare sulle opposizioni. Sul Pd e sui Cinque Stelle».

Terzo e ultimo caso, per quanto assurdo. Se il referendum passa il quorum cosa succede?
«Gli effetti pratici sarebbero quasi nulli, per i lavoratori cambierebbe assai poco. Ma Conte e Schlein devono chiudere le rispettive botteghe, trasferirsi nelle segrete di Corso Italia e dare le chiavi dei loro partiti a Maurizio Landini. Il centrodestra farebbe i salti di gioia».

E al centrodestra cosa conviene fare?
«Niente: stare in silenzio. Al massimo dire: “È una faida interna alla sinistra che risale al 2015, una resa di conta interna”. Siccome si sono messi a sostenere l’astensione, finiscono per fare campagna elettorale per la sinistra. Che era sull’orlo dell’abisso, prima di questo loro sostegno. La storia dovrebbe insegnare che i referendum non sono strumenti adatti per contare chi è a favore o contro il premier».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.