Verso il voto
Referendum 8 e 9 giugno, il sì sull’articolo 18 che inganna gli elettori: perché non si verifica un ampliamento delle garanzie per il lavoratore

La Corte Costituzionale è uno dei pochi presidi dello Stato di diritto e del vivere civile che è rimasto al riparo dall’iconoclastia populista e che mantiene un alto livello di fiducia tra i cittadini. Pertanto, gli elettori – chiamati a votare l’8 e il 9 giugno sui quesiti referendari proposti dalla Cgil e sostenuti da taluni partiti di opposizione – che volessero acquisire elementi di giudizio imparziali e pertinenti, potrebbero scaricare dal web la sentenza n. 12 del 7 gennaio 2025 con la quale la Consulta ha giudicato ammissibili i quesiti (N.B. la Presidenza del Consiglio non ha nemmeno incaricato l’Avvocatura dello Stato di svolgere la rituale difesa delle norme contestate a prova del disinteresse dei partiti di maggioranza per quella consultazione che è stata definita come una resa dei conti all’interno del Pd e della sinistra).
L’articolo 18
È scritto nella sentenza che i promotori rilevano, in particolare, che l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 (il c.d jobs act, ndr) determinerebbe la riespansione (quale normativa di risulta) della disciplina di cui all’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (omissis), che diverrebbe applicabile a prescindere dalla data di assunzione del dipendente illegittimamente licenziato, facendo venir meno le «differenziazioni tra lavoratori che svolgono le medesime attività, in direzione di una uniformità dei trattamenti». La Corte fa notare, invece, che in quella fattispecie, la disciplina uniforme del licenziamento diverrebbe quella sancita nell’articolo 18 novellato dalla legge n.92/2012 (la riforma Fornero del mercato del lavoro) che, nel caso del licenziamento per giustificati motivi oggettivi (economici) illegittimi, ha già messo in discussione la sanzione della reintegra, assumendo come dato generale il risarcimento economico. La Corte poi richiama tutte le precedenti decisioni assunte a modifica della normativa del decreto n.23/2015 ai fini di una maggiore tutela del lavoratore ed elenca i casi in cui l’approvazione del quesito abrogativo determinerebbe un arretramento della tutela stessa.
E la sua pubblicità ingannevole
In conclusione, i giudici delle leggi sentono il dovere di giustificarsi come se qualcuno rivolgesse loro la seguente domanda: Ma se il quesito è frutto di una pubblicità ingannevole perché l’abrogazione del jobs act non ripristinerebbe – come si fa intendere – la disciplina dell’articolo 18 folgorante in soglio nello Statuto del 1970, ma estenderebbe la versione novellata dalla legge n.92/2012 che ha abbandonato «il criterio della tutela reintegratoria generalizzata» con la previsione, nella maggior parte dei casi di licenziamenti economici, di una tutela solo indennitaria, più o meno ampia; se poi la Corte ha già provveduto con una sfilza di sentenze a mitigare il complessivo arretramento delle garanzie a favore della flessibilità in uscita, tanto da svuotare il jobs act dei suoi principali contenuti innovati; se infine il lavoratore vedrebbe venir meno in caso di abrogazione, alcune norme più vantaggiose ora vigenti; se quanto premesso è vero perché la Consulta ha dichiarato ammissibile il quesito stesso?
Le ipotesi
La circostanza che all’esito dell’approvazione del quesito abrogativo – precisa la Corte – il risultato di un ampliamento delle garanzie per il lavoratore non si verificherebbe in realtà in tutte le ipotesi di invalidità, perché in alcuni casi particolari si avrebbe, invece, un arretramento di tutela non assume una dimensione tale da inficiare la chiarezza, l’omogeneità e la stessa univocità del quesito medesimo. Questo chiama, infatti, il corpo elettorale a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative, senza perdere la propria matrice unitaria, che resta quella di esprimersi a favore o contro l’abrogazione del d.lgs. n. 23 del 2015 nella sua articolata formulazione. In parole povere, i giudici delle leggi – una volta accertato che siano rispettate tutte le regole per l’ammissibilità di un referendum – non sono tenuti a farsi carico del risultato del voto – favorevole o meno – per i lavoratori. Il corpo elettorale – conclude la Corte – è chiamato a una valutazione complessiva e generale, che può anche prescindere dalle specifiche e differenti disposizioni normative. Come a dire: se gli elettori – votando Sì – vorranno fare un favore alla ditta Landini & Schlein, poi non vengano a lamentarsi alla Consulta, quando si accorgeranno di essere stati ingannati.
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