Carcere e diritto alla salute
Giudice infiltrato nell’ex Opg di Aversa, “Vi racconto il dramma dei pazienti psichici in cella”
Io credo che su questo bisogna investire perché ancora una volta è questo il tema su cui si misura la civiltà di uno Stato democratico, ma soprattutto la sensibilità di un popolo davanti alla diversità. Va ripensato allora il sistema carcerario e l’applicazione delle misure detentive nel caso di infermi di mente. Sul punto mi piace richiamare la definizione contenuta nella proposta di legge a firma del deputato Riccardo Magi che individua, in questo caso, uno stato di salute denominato “condizione delle persone con disabilità psicosociale” sottolineando come, nella nostra società, essa costituisca una condizione di svantaggio, così proponendosi un’attenuazione della gravità delle condotte criminose commesse da queste persone perché di minore disvalore sociale.
Questo implica una valutazione chiara ed evidente relativa alla necessità di una revisione della risposta sanzionatoria. Bisogna prevedere misure alternative al carcere come stabilito per altre malattie e – questo è il tema sul quale oggi soffermarsi – se ciò non è possibile bisogna evitare che in concreto le articolazioni per la salute mentale possano perdere di vista il bisogno di cura del malato come obiettivo centrale. Purtroppo ciò non accadeva negli opg perché il carcere era sentito come punizione ingiusta e isolamento posto in essere dalla società civile, col risultato che così si creava una distanza irreparabile che si sentiva sulla pelle, nonostante qualsiasi sforzo di integrazione che pure si attuava. Troppo grave era sentirsi socialmente pericoloso. Nel ripensare alla mia permanenza, credo sia fondamentale immaginare che la cura di questi detenuti “speciali” debba essere garantita dalla presenza del dipartimento della salute mentale in ogni istituto penitenziario e che si debba mettere al centro di ogni considerazione l’uomo con la sua debolezza e i suoi pensieri.
Chiudo raccontandovi un breve episodio. Mio involontario compagno di cella nell’ospedale psichiatrico-giudiziario di Aversa era un giovane che, in preda a un raptus, volendo uccidere un adulto, colpì involontariamente la propria figlia che giaceva dormendo nel carrozzino. La colpì al centro della fronte tra i due suoi occhi azzurri facendola sprofondare in un coma poi durato alcuni anni e terminato con la morte. Mi disse piangendo: «Sono stato condannato per omicidio volontario da un giudice che non si è mai chiesto come sia possibile che un padre uccida volontariamente una figlia di pochi mesi. È questa la giustizia? È questa la pena che devo scontare? In questo posto?» All’epoca non seppi rispondere, ma rivolgo questa domanda a chi dovrà necessariamente occuparsi del tema della psichiatria e del carcere affinché rifletta su certe parole che ancora oggi pesano come macigni sulla coscienza di una società che ambisce a definirsi civile.
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