E se, all’esito della riforma dell’ordinamento giudiziario, la qualità delle decisioni peggiorasse ulteriormente? Il disegno di legge, approvato all’unanimità dal Governo, tocca molti punti dello statuto giuridico della magistratura. La delicatezza degli interventi sta nel fatto che essi, alla valenza corporativa connessa alla circostanza che sono destinati ad incidere sulla condizione giuridica di una categoria, aggiungono una valenza sul piano degli interessi collettivi, in quanto sono destinati ad incidere direttamente sulla qualità dei provvedimenti giudiziari, qualità che è certamente scaduta, e di molto, se il Capo dello Stato ha ritenuto necessario denunciare, con sorprendente brutale sincerità, il loro carattere spesso arbitrario ed imprevedibile. È quest’ultima, dunque, la prospettiva corretta nella quale valutare l’iniziativa riformatrice, e non già quella, meramente corporativa, che troppo spesso emerge dalle prese di posizione della magistratura associata.

In questa prospettiva, sono molti gli aspetti della riforma che non convincono: dalle regole per la elezione dei membri togati del Csm alla totale abolizione della rilevanza della anzianità nel conferimento degli incarichi, che è l’unico criterio obiettivo, e perciò non manipolabile, esistente. Vi è un aspetto del disegno di legge, tuttavia, che appare più degli altri poco meditato. Si tratta di quella parte del provvedimento, che intende introdurre nuove regole, per le valutazioni di professionalità periodiche dei magistrati, con la valorizzazione del criterio della “tenuta dei provvedimenti giurisdizionali”. Una siffatta previsione corrisponde alla richiesta, formulata da più parti, di dare rilievo anche all’esito di tante iniziative giudiziarie, che partono con grandissimo clamore, distruggendo la vita e la dignità delle persone coinvolte, e che, poi, nel silenzio generale, si concludono con un nulla di fatto.

Va subito detto che una tale previsione, seppure richiami immediatamente il ricordo di quella serie di accadimenti che accompagnano spesso talune indagini penali (dagli avvisi di garanzia a mezzo stampa, alle ordinanze di custodia cautelare e ai decreti di sequestro, di cui vengono subito pubblicati ampi stralci sui giornali), è destinata ad operare anche in ambito civile. Anche le decisioni civili, difatti, sono suscettibili di valutazione in ordine alla “tenuta”, potendo le stesse essere riformate in sede di impugnazione. Ed anche le decisioni civili possono avere effetti devastanti sulla vita delle persone. Ebbene, la proposta governativa presenta due profili di criticità. Uno di carattere generale e l’altro specifico della giustizia penale.

Il profilo di carattere generale sta nella circostanza che il semplicismo, con cui la proposta è formulata, urta con quella complessità dell’ordinamento e delle sue fonti, che, pur senza autorizzare lo sfrenato soggettivismo cui oggi troppo spesso si assiste, non consente di ridurre la valutazione di una decisione ad una scelta tra il bianco ed il nero. Il rischio diventa un acritico appiattimento sui precedenti giurisprudenziali consolidati, come tutela del giudice dai rischi per la propria valutazione, che una giurisprudenza innovativa potrebbe comportare. Potrebbe essere colpita, in modo surrettizio, la stessa indipendenza del giudice. Ecco, allora, che oggetto di valutazione dovrebbe essere non già la “tenuta” in sé dei provvedimenti, bensì la ragione della mancata “tenuta”. Certamente profondamente diversi sono i casi in cui i provvedimenti siano affetti da marchiani errori di diritto o totale superficialità o mancanza di equilibrio nella considerazione delle prove, da quelli in cui si sia in presenza di questioni nuove ed opinabili o di compendi probatori particolarmente complessi.

Si tratta, indubbiamente, di una distinzione non sempre agevole, ma alla quale occorre inevitabilmente giungere affinché sia realmente perseguita quella finalità di stimolare una maggiore qualità dei provvedimenti giudiziari, che è alla base della proposta di riforma. L’aspetto che, poi, riguarda in modo specifico il settore della giustizia penale si riferisce al tema del rapporto tra pubblico ministero e giudice. A ben vedere, se nella valutazione professionale di un pubblico ministero diventa rilevante la “tenuta” delle sue iniziative, la conseguenza è che il giudice finisce con l’avere, nelle sue mani, il destino non solo dell’imputato, ma anche quello, sia pure solo professionale, del pubblico ministero. Al di là di ogni solenne affermazione di facciata sull’autonomia e l’indipendenza di chi giudica, si tratta di un aspetto che non può non influire, quantomeno in alcuni casi, sul giudizio.

Si pensi ai piccoli tribunali, nei quali giudici e pubblici ministeri condividono ogni esperienza, sentendosi parte della medesima categoria professionale, o alla eventualità di appartenenza del pubblico ministero e del giudice alla medesima corrente associativa. Già oggi, come ha denunciato su questo giornale dell’11 febbraio Gian Domenico Caiazza, l’imputato è colpito da una presunzione di colpevolezza, dovuta allo spostamento del baricentro della giustizia penale dal giudizio alle indagini, con attribuzione all’ipotesi accusatoria di un peso quasi conclusivo nella valutazione penale del fatto. Figurarsi cosa può succedere se, a questo primo condizionamento, si dovesse aggiungere la preoccupazione del giudice di poter danneggiare, con la sua decisione, la carriera del collega pubblico ministero.
In conclusione, affinché la riforma sia davvero capace di ridare qualità alle decisioni della magistratura, vi sono due nodi che non possono essere aggirati: quello di una valutazione del merito delle decisioni e quello della separazione delle carriere.

La prima questione è molto delicata e, proprio per questo, non può trovare risposta su di un piano meramente ideologico. Si tratta di individuare soluzioni di buon senso, come potrebbe essere la costituzione di una commissione di valutazione espressa dal C.S.M., dall’Avvocatura e dall’Accademia, abilitata a pesare la “qualità” delle decisioni. Del resto, se è prevista una amplissima discrezionalità rispetto alla valutazione dell’attitudine agli incarichi direttivi, non si comprende perché dovrebbe essere esclusa una valutazione sulla qualità dell’attività svolta, valutazione rispetto alla quale l’esistenza di criteri tecnici sarebbe di per sé limitativa di possibili abusi.

La seconda questione richiede solo la volontà politica di superare la strenua resistenza, che sta opponendo la corporazione dei magistrati. Un esito favorevole e plebiscitario del quarto quesito referendario sarebbe un viatico formidabile per giungere finalmente alla ormai ineludibile separazione delle carriere di magistratura giudicante e di magistratura requirente.