La missione di riformare il Csm non è ancora compiuta. Serviranno due letture parlamentari dove il governo si è impegnato a non mettere la fiducia e i partiti di maggioranza a non usarla come arma di ricatto. Dunque a favorirne un iter “veloce, approfondito ed entro aprile” quando poi si dovrà iniziare a lavorare alla prossima consiliatura di palazzo dei Marescialli. Ma quella uscita ieri dal Consiglio dei ministri è tra le riforme più rivoluzionarie degli ultimi trent’anni nel settore giustizia. Più del processo penale e di quello civile.

“Risponde – ha detto il ministro della Giustizia Marta Cartabia – all’ineludibilità rappresentata dal presidente Mattarella” una settimana fa nel suo discorso di insediamento per il bis, “ai cittadini che devono ritrovare fiducia nella magistratura e ai tanti magistrati per bene”, la maggior parte, che in questi ultimi anni hanno sofferto e subìto il discredito delle inchieste che hanno terremotato prima il Csm e poi altri uffici di magistratura. Non è una riforma punitiva per la magistratura, che però non gradirà molte sue parti. Sicuramente cura alcune distorsioni più evidenti: il vizietto di indossare la toga, fare politica e poi indossare nuovamente la toga (seppure in distretti giudiziari diversi), di cumulare doppie indennità (giudice e nuovo incarico, politico o amministrativo che sia) indennità, ovvero quel fenomeno tutto italiano delle cosiddette “porte girevoli”.

Sulle modalità di elezione dell’organo di autogoverno della magistratura (un sistema misto, maggioritario e proporzionale, senza le liste delle correnti), le modifiche sono importanti e certamente non aiutano i giochi delle correnti. Solo il testo, una volta approvato definitivamente, saprà dire fino a che punto potrà essere vulnerabile. Oltre sarebbe stato difficile fare, senza toccare la Costituzione. “Discrimina i magistrati, per cui forse servirebbe una norma di rango costituzionale, ma tutela l’ordine giudiziario. E’ una soluzione opinabile ma almeno non è ipocrita” suggerisce un magistrato prestato ormai da anni alla politica come il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano. Un’analisi che rappresenta come ormai anche la magistratura ha capito che stavolta è il tempo di cambiare e per davvero.

In generale, la giornata di ieri è la risposta migliore a chi si chiede se Draghi sia uscito più o meno rafforzato dalla battaglia per il Quirinale. La riforma del Csm è un passaggio epocale che solo un governo forte può tentare di portare fino in fondo. La conferenza stampa, la prima dopo il campo di battaglia delle urne quirinalizie, è stata anche l’occasione per Draghi di dire chiaro e forte di escludere il rimpasto di governo e un futuro per lui in politica dopo questa esperienza. Giovedì pomeriggio la riforma ha rischiato di impantanarsi di nuovo tra i veti incrociati dei “portatori di interesse” di questa partita: le visioni opposte sulla giustizia che hanno le destre e i 5 Stelle; la posizione mediana del Pd, una volta – un’epoca ormai finita – nettamente a favore delle toghe; quella nuova esigenza che si chiama garantismo che ormai abbraccia trasversale destra, sinistra e centro. Draghi ha tenuto il punto con la ministra Cartabia e ancora ieri mattina, in un preconsiglio che sembrava non finire mai (convocato alle 11 è iniziato alle 12.30), ha chiarito che la riforma andava portata avanti. Ad ogni costo.

La faccia ce la metteva lui. E l’avrebbe messa fino in fondo. Lo ha chiesto Mattarella, lo vuole l’Europa. Soprattutto lo chiedono i cittadini, i primi azionisti del governo (il gradimento dopo un anno di “vita” è al 60 per cento, dieci punti sopra il Conte 1 e 2 un anno dopo il loro inizio). Il compromesso che ha reso possibile il voto unanime di tutti i ministri, è stata la promessa del governo di non mettere la fiducia e dei partiti di maggioranza di non ostacolare l’iter parlamentare della legge. E adesso si vedrà chi sono gli uomini/le donne e chi i mezzi uomini/le mezze donne. Nella conferenza stampa post cdm – accanto a lui la ministra Cartabia e il ministro Franco – il premier è stato chiaro su molti punti. Quasi puntuto. Nel corso del Consiglio dei ministri, ha spiegato, “c’è stata questa consapevolezza della necessità di un pieno coinvolgimento delle forze politiche. Quindi niente tentativi di imporre la fiducia. E’ un provvedimento di portata tale che necessita di questa apertura”. I capigruppo si sono a loro volta impegnati “a sostenere con i propri partiti questa riforma”.

La ministra Cartabia ha deciso di procedere non con un testo proprio ma con emendamenti al testo Bonafede già incardinato in Commissione Giustizia alla Camera. Gli emendamenti concordati in Cdm prevedono lo stop alle porte girevoli tra magistratura e politica. Chi diventa parlamentare o ministro o sottosegretario, dunque sia cariche elettive che nomine con relativo distacco, non potrà più tornare a fare il giudice (unica eccezione per gli incarichi ‘tecnici’ che durano meno di un anno). Stop anche per le nomine “a pacchetto” in Csm per evitare accordi trasversali: in pratica procuratori, aggiunti e presidenti di tribunale saranno nominati uno alla volta e al termine della scadenza. Mai più rinvii e quindi il fenomeno delle “nomine a pacchetto” che sono state il campo da gioco preferito per la spartizione dei posti tra le correnti. Il plenum torna a 30 elementi (ora sono 27), 20 togati e 10 laici. Il sistema elettorale prevede un maggioritario (due per ogni collegio) e una quota di proporzionale per garantire chi decide di correre da solo.

Scartato il sorteggio per anticostituzionalità, dovrebbe questa essere la formula migliore per evitare al massimo il potere delle correnti. “Le differenti opinioni sul Csm sono rimaste” ha ammesso il premier “ma c’è l’impegno a superarle entro le prossime elezioni per il Csm”. Un Draghi puntuto, si diceva. Molto chiaro anche sugli altri temi caldi. Sugli aiuti per il caro energia: “E’ la nostra priorità, la prossima settimana ci sarà un provvedimento che interviene subito sui costi per imprese e famiglie e anche in via strutturale per aumentare la nostra disponibilità energetica”. Sulle frodi del superbonus edilizio. Su questo capitolo gli ha dato man forte il ministro Bianchi che ha misurato in 2,3 miliardi l’ammontare delle frodi riscontrare dall’Agenzia delle entrate. Un premier, infine, puntuto sul suo futuro.

Dopo essere stato al centro del risiko che ha portato alla rielezione di Mattarella, Draghi si è chiamato fuori da ogni suo possibile futuro politico. Diversi gli scenari che vedono l’ex leader Bce impegnato “da nonno delle istituzioni”, anche dopo il 2023, quando è fissata la fine della legislatura. Molti di questi coinvolgono le forze centriste-progressiste che lo vorrebbero a palazzo Chigi anche dopo il 2023. La replica è stata secca. A chi, ad esempio, lo chiama in causa quale possibile federatore del “grande centro” che molti vorrebbero costruire, Draghi ha risposto “in maniera totalmente chiara: lo escludo”. “Tanti, anche politici, mi candidano in tanti posti in giro per il mondo, mostrando una sollecitudine straordinaria nei miei confronti. Ringrazio moltissimo tutti ma vorrei rassicurarli – ha scandito con sguardo severo seppure mitigato da un mezzo sorriso – che se per caso decidessi di lavorare dopo questa esperienza, probabilmente un lavoro lo troverei anche da solo”. E ai cronisti che lo hanno continuato a sollecitato circa una sua possibile candidatura nel 2023, ha detto: “Lo escludo, chiaro? Fine”. L’errore – o l’ingenuità – di rispondere alle sollecitazioni di stampa e opinionisti lo ha già fatto una volta. E per quanto inesperto politicamente, la lezione è servita. Il resto è tutto ancora da scrivere.

 

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.