Certo se le accuse contro il cardinale Becciu, tali da provocarne il defenestramento, sono quelle che si leggono sull’articolo de L’Espresso uscito domenica, allora siamo davvero messi male. Lo stesso reportage nota in almeno un paio di occasioni che non ci sono reati, semmai comportamenti che hanno favorito la famiglia (nepotismo). Ora intendiamoci, in questi giorni se ne leggono (carta stampata e web) e se ne sentono (tv e via dicendo) di tutti i colori. Tre esempi per tutti:

L’Espresso scrive che non sono stati commessi reati. Giusto, a sentire loro, ma secondo quale normativa? Italiana o vaticana? Non sono identiche. Poi si parla di possibile “avviso di garanzia” (anche il Tg2 domenica alle 13): e perché? Mica è indagato in Italia. E in Vaticano non esiste tale procedura. Terzo: si scrive e si dice che il cardinale avrebbe usato fondi dall’ottopermille. Che è una “cosa” tutta italiana e la Santa Sede non c’entra. Troppa confusione tra Italia, Conferenza episcopale italiana alla quale va l’ottopermille e Santa Sede che con questa normativa nulla ha a che fare.

Atteniamoci ai pochi fatti noti. Il primo: un cardinale rimosso dal suo incarico si professa innocente e dice che al massimo è stato imprudente nel favorire la famiglia. Secondo: la ricostruzione de L’Espresso parla di fondi distribuiti che tuttavia erano nella disponibilità del cardinale quando ricopriva l’incarico di Sostituto (numero 3 della gerarchia vaticana, dopo Papa e Segretario di stato). E del resto se il numero 3 non può disporre di fondi, cosa sta a fare? Terzo: c’è di mezzo la nota vicenda del palazzo a Londra ma pare che si possa separare dalle questioni del cardinale e – quarto – la rimozione decisa in venti minuti di colloquio secondo uno stile da giustizialismo populista di altri emisferi.

Che cosa abbiamo capito? Poco o niente, in verità. Allora ricominciamo a fare ordine e qualche domanda. Se i fatti addebitati sono solo questi, per medesima ammissione de L’Espresso, non ci sarebbero reati (non si capisce in base a quale legislazione, ma insomma sorvoliamo anche su questo). Ci sarebbe una questione di opportunità: sostenere parenti stretti non è il massimo: il nepotismo ha una storia antica e oggi appare fuori luogo. Così ora sembra che la soluzione sarà accentrare tutti i fondi, i conti corrente, le disponibilità, nelle mani della Segreteria per l’economia e dell’Amministrazione del Patrimonio (Apsa). In realtà la decisione non consegue da questa vicenda ma era già stata comunicata prima dell’estate. Resta da vedere se funziona e in che misura sarà possibile un vero accentramento.

Ancora non siamo al punto vero. Potrebbe essere questo: come mettere fine al nepotismo? Qui ci vuole il cambiamento profondo – spirituale, delle coscienze, interiore – di cui parla papa Francesco, perché le norme contro il nepotismo esistono. Però non vengono applicate. Da decenni, ad esempio, il Regolamento generale della Curia romana vieta le assunzioni di parenti fino al quarto grado. Ciò non impedisce di avere figli e nipoti che si tramandano posti di lavoro; figli assunti mentre i genitori sono in servizio e via dicendo. Forse il Papa venuto “quasi dalla fine del mondo” non lo sa, o meglio: non glielo ha mai detto nessuno e lui non lo ha chiesto. È il caso di informarsi. Così come le ditte che svolgono degli incarichi o hanno degli appalti: in teoria si fanno fare diversi preventivi, in realtà si sceglie per preferenza o per interesse, non in base a efficienza e costi.

Perché accade? Il Vaticano è meno efficiente o più inefficiente di altre realtà? No, lo snodo è teologico. Ogni riforma si affossa proprio sulla teologia. Nella Chiesa si lavora per adempiere il mandato evangelico. Si lavora a servizio del Papa. E l’evangelizzazione non si misura con gli strumenti dei consigli di amministrazione, con i ricavi, con i risultati positivi o negativi dei bilanci e con gli strumenti di gestione del personale. La qualità non conta per oggi, la qualità è proiettata su scala eterna. Lo dicono i papi, i vescovi, i preti, per giustificare la loro mancata efficienza: la Santa Sede non è un’azienda, il lavoro è per il Regno di Dio. Dunque non è un lavoro vero e proprio, è semmai una via di mezzo tra un lavoro e una missione. Tu sei al servizio della Chiesa e del Papa e ti deve bastare.

Invece quando vai a fare la spesa e devi far quadrare il bilancio familiare, ti accorgi che lo stipendio non basta e allora tra il lavoro e la missione bisogna trovare dei modi per incrementare i redditi. Semplice? Semplice e triste. Si ricordi la battuta attribuita a Giovanni XXIII la volta in cui gli chiesero: quante persone lavorano in Vaticano? E il Papa rispose: circa la metà. Sappiamo che è vero, però gli stipendi pagati sono per il doppio della metà che lavora, cioè anche per chi non lavora. Non essendoci meritocrazia ma livellamento funzionale, non essendoci strumenti di valutazione della produttività, tutti gli abusi o i sotterfugi diventano possibili. Questa sarebbe l’essenza di una riforma: far capire a cardinali, arcivescovi, vescovi, preti di curia, che sarebbe necessario introdurre elementi oggettivi di valutazione. Ma introdurli davvero. Sulla carta ci sono, restano inapplicati e tutto rimane inalterato.

Ecco allora lo spoil system. Sarebbe auspicabile una vera riforma del tipo: tutti i preti che lavorano in Vaticano, a qualsiasi livello, di qualsiasi grado, vadano nelle loro diocesi, se ne tornino da dove sono venuti. Lasciate i laici, prepensionate il più possibile in base a criteri rigorosi, e assumete persone qualificate. In base a un criterio semplice: se oggi ci sono 4 mila dipendenti, ne basteranno 1500, pagati un terzo di più, per avere un risparmio sostanzioso delle spese e un incremento della produttività. Certo il Regno di Dio avanza sulla terra non in base alla produttività dei dipendenti della Santa Sede, pardon dello Stato della Città del Vaticano (e già sulla distinzione ci sarebbe proprio da scrivere tanto…), però farla finita con nepotismi finanziari e non solo, aumenterebbe di molto la credibilità dell’istituzione.

Come cambiare? All’interno di strutture ampie e complesse ci sono delle strade da percorrere per avviare un reale cambiamento. Possiamo usare tre parole-chiave: riparazione, riflessività, stile. Riparare vuol dire gestire il conflitto, nascosto o palese; si tratta invece di cominciare a collaborare davvero con tutti, per raggiungere obiettivi di valore collettivo. In questo senso “buttare fuori qualcuno” non è una soluzione tanto adeguata. Riflessività vuol dire far emergere i chiaroscuri (capacità di riflettere insieme) e collegare le conquiste “esterne” alle conquiste “interne” delle persone: il lavoro per ognuno è portatore di significato per la vita, contribuisce a conferire un ruolo sociale ed individuale. Il terzo passo è far crescere l’idea che la leadership è azione e impegno; un leader ha dei veri follower (tanto più nell’era dei social networks), seguaci effettivi, non seguaci per forza, per invidia, per opportunismo.

Invece abbiamo assistito al giustizialismo populista: ti conosco da tanti anni, ti ho creato cardinale, dopo anni (!!) scopro che hai operato non in modo criminale ma quantomeno molto inopportuno, dunque ti caccio per dare un segnale a tutto il sottobosco vaticano. Penso di dimostrarmi forte e non comprendo quanto sono debole; agisco per istinto ed impulso: sono debolissimo. Inoltre in un colpo solo il Papa ha esautorato il Segretario di Stato che non sapeva niente, il Dicastero per la comunicazione che tace da una settimana, e grazie a 20 minuti di processo sommario ha affossato il Procuratore generale da poco nominato. E ha rivelato il vero volto di questo potere: monarchico-dittatoriale e fittizio con il risultato di avere una Curia disorientata e spaesata, impaurita fino alla paralisi operativa per non correre il rischio di fare la stessa fine del cardinale sardo. Mentre si pensava di risolvere un problema, la soluzione lo ha acuito. Come dicono gli psicologi cognitivi: la soluzione indica il problema. Se ne esce solo con un drastico spoil system e con una revisione profonda dei meccanismi in favore di un lavoro di squadra.