Se all’Unione europea stesse davvero a cuore il suo Green Deal, almeno un rappresentante della Commissione Ue avrebbe dovuto accompagnare il presidente Macron nella sua missione in Nuova Caledonia. Non sono soltanto i diritti umani e la nostalgia del vecchio impero coloniale ad aver convinto il capo dell’Eliseo a compiere un viaggio di 17mila chilometri per sedare gli scontri di piazza in corso nell’arcipelago. Il territorio d’oltremare è il quinto produttore mondiale di nickel, materia prima strategica per chi mira alla neutralità tecnologica. Ecco perché Bruxelles dovrebbe essere più sensibile alla crisi laggiù, quanto al tema più ampio delle materie prime.

Le speculazioni sulle commodity, infatti, sono tornate a gonfiarsi. Al London Stock Exchange il rame ha toccato i 10.700 dollari/tonnellata. Gli analisti di Bank of America e BlackRock sono certi che presto supererà il record storico di marzo 2022, dei 10.845 dollari, per schizzare a 12mila dollari entro un paio d’anni. Più contenuti i rialzi di zinco, alluminio e piombo, comunque cresciuti negli ultimi tre mesi a un ritmo medio del +2,8%. C’è poi il nickel, di cui la filiera dell’auto elettrica è ghiotta. L’Indonesia, primo produttore al mondo, sta giocando parecchio sui prezzi di mercato. Quel che sta succedendo però non è una speculazione fine a se stessa. Certo, i mercati stanno gonfiando le quotazioni. Ma questo è il loro mestiere. Ed è altrettanto noto che, con la pandemia e la guerra russo-ucraina, le catene di fornitura – per come sono oggi – risultano insostenibili.

Il guaio maggiore però è il Green Deal. La transizione ecologica richiede un’accessibilità rapida e abbondante di materie prime. Rame, zinco, alluminio, piombo, nickel e altri metalli sono diventati preziosi, alla stregua di oro e argento, non certo per un fattore estetico. È il loro uso industriale – nell’automotive, nella produzione di turbine eoliche e impianti fotovoltaici – ad averli resi noti come “materie prime critiche”. Lo switch da un motore a combustione a uno elettrico non è a somma zero.

La rinuncia alle fonti non rinnovabili richiede uno sforzo in tecnologie alternative e quindi il ricorso a materiali già usati in precedenza, ma mai così tanto. Cina e Stati Uniti se ne sono accorti. Tant’è che si sono fatti le proprie politiche protezionistiche e hanno individuato nuove risorse domestiche da sfruttare. Molto meno ha fatto l’Europa, dove le riserve sono limitate. C’è qualche giacimento tra Italia e Portogallo, ma non sufficiente per soddisfare una domanda crescente. Peraltro è meglio non immaginarsi cosa succederebbe se un governo decidesse di dare l’ok a una concessione per l’estrazione nel cuore di un parco naturale, o di un presidio Slow Food.

Altrettanto complesso il discorso del recupero di materie prime secondarie. Riciclare alluminio o rame già in uso è una buona idea, ma costa e ha bisogno di tempi lunghi. Tuttavia la grande mancanza di Bruxelles sta nel non essersi trovata gli amici giusti. Lo chiamano friendshoring, ovvero la pratica di creare un sistema di alleanze politiche che faccia da impalcatura alle catene di approvvigionamento. A titolo di esempio: io, manifattura europea, mi fido di te, Indonesia, perché siamo alleati politici e partner commerciali. E così, in cambio del mio know how tecnologico, tu mi fai arrivare, a prezzi favorevoli, il nickel per la mia industria dell’auto. No, questo piano non si è fatto e nemmeno pensato.

Antonio Picasso

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