Rafah attende il suo destino insieme a circa un milione e mezzo di palestinesi, tra abitanti e rifugiati. Sull’operazione militare, è da tempo in corso un enorme negoziato diplomatico parallelo a quello per la liberazione degli ostaggi e l’eventuale cessazione delle ostilità. Gli Stati Uniti e l’intera comunità internazionale (cui ieri si è aggiunta anche la voce del principe William, che ha rotto il silenzio dicendo che “troppe persone sono state uccise”) premono affinché Israele non avanzi sulla città a sud della Striscia di Gaza. Ma il governo di Benjamin Netanyahu sembra ormai convinto che l’unica strada percorribile sia quella della presa di Rafah, pur ammettendo la necessità di predisporre piani per evacuare i civili come richiesto in particolare da Washington.

Ieri il portale Axios ha suggerito che l’operazione militare delle Israel defense forces potrebbe partire ad aprile, con la fine del mese sacro del Ramadan. Una scelta dettata sia dalla volontà di prendere tempo per i negoziati e per la pianificazione per la fuga dei civili, sia per evitare di gestire un assalto che avrebbe certamente ripercussioni anche sul fronte interno e la Cisgiordania. Hamas ha già invocato una mobilitazione per la limitazione dell’accesso alla moschea di Al-Aqsa durante il mese sacro ai musulmani. Una decisione voluta da Itamar Ben Gvir, ministro della sicurezza interna e appartenente alla destra radicale, e che secondo i media è fortemente criticata anche dall’agenzia di intelligence dello Shin Bet. I timori sono molti. Ed è anche per questo che la diplomazia lavora per raggiungere un’intesa tra Hamas e governo Netanyahu in grado di evitare una nuova escalation in un quadro generale già estremamente compromesso, sia sul lato umanitario (i morti per le autorità di Gaza sono 29mila) che strategico.

Il lavoro delle cancellerie coinvolte appare però tutt’altro che semplice. Ieri, al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno posto il veto sulla risoluzione presentata dall’Algeria che chiedeva un “cessate il fuoco immediato” nella Striscia di Gaza, un aumento considerevole degli aiuti per la popolazione, l’impegno di Israele a rispettare gli obblighi imposti dal diritto internazionale e dalla Corte internazionale di giustizia e la liberazione degli ostaggi da parte di Hamas. Ma per Washington i tempi per una risoluzione di questo tipo non sono maturi. Linda Thomas-Greenfield, ambasciatrice Usa al Palazzo di Vetro, ha spiegato che un atto come quello redatto da Algeri avrebbe avuto “un impatto negativo sui negoziati” e prolungato “i combattimenti tra Hamas e Israele”. La scelta americana è in linea con quanto già compiuto in questi mesi di guerra, dal momento che l’amministrazione Biden aveva già posto per due volte il veto su risoluzioni che riguardavano l’operazione israeliana a Gaza.

La prima fu il 18 ottobre, quando il Brasile presentò una risoluzione per chiedere “pause umanitarie”. La seconda volta fu invece a dicembre, nell’ambito del documento presentato dagli Emirati Arabi Uniti sul cessate il fuoco. La differenza rispetto ai precedenti stop imposti dagli Stati Uniti è legata però a un fatto nuovo: e cioè che l’amministrazione democratica sta lavorando per presentare una risoluzione che chiederà un cessate il fuoco ma appena sarà possibile, e cioè quando saranno realizzate alcune condizioni ritenute essenziali anche da Israele, ma anche, probabilmente, quando saranno andate avanti le trattative tra Hamas e lo Stato ebraico. Il negoziato, infatti, è un elemento che può essere decisivo. Anche se negli ultimi giorni la strada per l’intesa è sembrata diventare sempre più tortuosa.

Ieri il capo politico di Hamas, Ismail Haniyeh, è arrivato al Cairo per discutere con alcuni funzionari egiziani. Ma una fonte di alto livello del gruppo palestinese ha sottolineato che la presenza del leader palestinese in Egitto non indica una svolta nel dialogo tra le parti. Inoltre da Israele sono giunte dichiarazioni particolarmente dure del ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, esponente di spicco della destra radicale. Alla radio Kan, il ministro del governo Netanyahu ha rivelato di non considerare il ritorno degli ostaggi come “la cosa più importante”, e che “l’affermazione ‘a ogni costo’ è problematica” se riferita alle mosse per liberarli. “Cosa è importante adesso? Dobbiamo distruggere Hamas”, ha detto Smotrich. E questa frase implica che una parte rilevante del governo potrebbe opporsi a un’eventuale intesa e costringere Netanyahu a mantenere la linea dell’intransigenza. Una linea che certo non piace al presidente Usa, Joe Biden, che ha fatto arrivare nella regione il suo consigliere per il Medio Oriente, Brett McGurk.

L’inviato della Casa Bianca è atteso in Egitto e in Israele, e la speranza di Biden è che dagli incontri possa arrivare nuova linfa vitale alle trattative sulla tregua e sugli ostaggi. Ostaggi che ieri, come ha spiegato il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed al-Ansari, avrebbero iniziato a ricevere i medicinali da Hamas come parte dell’accordo mediato da Doha e Parigi. La notizia è servita a sollevare in piccola parte la disperazione dei familiari delle persone rapite il 7 ottobre. Ma il loro destino continua a essere inevitabilmente legato a una guerra che appare ancora lunga. Il capo di Stato maggiore israeliano, Herzi Halevi, in una lettera ha esortato i soldati “a stare attenti a non usare la forza dove non è necessario, a distinguere tra un terrorista e chi non lo è, a non prendere nulla che non sia nostro – un souvenir o armi – e a non filmare video di vendetta”. Queste dichiarazioni confermano il desiderio dei vertici militari di non dare adito a fenomeni estremistici, e di garantire gli impegni pretesi anche dagli alleati. Ma il timore è che l’assedio di Rafah, la tensione a Gerusalemme e in Cisgiordania e l’escalation ai confini di Israele (in particolare in Libano) e in tutto il Medio Oriente, possano accendere nuovi e inquietanti focolai.