Nel “Si&No” del Riformista spazio alle polemiche suscitate dal New York Times che ha definito “i cinepanettoni“, i film di Natale, sessisti e volgari. La domanda è: ha ragione il quotidiano americano? Favorevole Eleonora Evi, deputata Verdi-Sinistra italiana, secondo cui “nei cinepanettoni i ruoli delle donne sono pensati sempre per compiacere gli uomini“. Contrario invece Luciano Nobili, consigliere regionale di Italia Viva, che commenta: “Hanno garantito al cinema risorse poi reinvestite in film d’autore“.

Qui il commento di Luciano Nobili:

Premessa: non sono un grande esperto né un fan scalmanato dei cinepanettoni – di quelli che conoscono tutte le battute di Guido Nicheli, alias Dogui, a memoria. Tutt’altro: da appassionato di cinema cerco di essere uno spettatore onnivoro libero di passare da Kiarostami a De Sica, da Kiewsloski a Vanzina. Di cinepanettoni ne ho visti alcuni, molto alterni tra di loro per qualità, alcune volte ho riso di gusto, altre mi sono annoiato. Soprattutto negli ultimi anni, quando una formula nata per portare al cinema tutta la famiglia era ridotta solo alla rincorsa all’incasso, quando un fenomeno ormai consunto si limitava solo ad una ripetizione senza idee né fantasia. Mai come mi sono annoiato, però, nel leggere l’attacco, davvero un po’ snob (“umorismo da toilette, sessismo e consumismo”), che Jason Horowitz, capo della redazione italiana del New York Times ha vergato, dopo essersi imbattuto, durante le sue vacanze a Cortina, nelle sacrosante celebrazioni per i 40 anni del primo Vacanze di Natale, firmato Carlo Vanzina.

E, brechtianamente, scelgo volentieri di sedermi dalla parte del torto per difendere un pezzo della storia del cinema italiano. Intanto perché Horowitz parte da un errore: il primo Vacanze di Natale, datato 1983, non era un cinepanettone come ha giustamente replicato Enrico Vanzina. Ma, semmai, sull’onda del suo successo, per i successivi trent’anni si è tentato di costruire il genere del “film di Natale”: interpretazioni sopra le righe, lussuose location di vacanza, belle donne, qualche battutaccia di troppo e il cocktail era servito. Una formula facile che ha sicuramente abbassato il livello rispetto ai capolavori della commedia all’italiana di Monicelli, Risi e Scola di cui era figlia temporalmente ma non culturalmente, e che certamente ha abusato in parolacce e rutti in libertà e assicurato grandi incassi a interpreti e produttori. Ma che ha anche garantito, è bene ricordarlo, risorse all’industria cinematografica che spesso sono state reinvestite in film d’autore (Tornatore per tutti), che magari senza i successi di Boldi e De Sica, non avrebbero mai visto la luce. Oltre a rappresentare in una stagione povera di altre idee un argine al botteghino al grande cinema americano (si racconta ancora di come il successo al botteghino di “Natale a Beverly Hills” fece slittare l’uscita in sala del primo “Avatar”).
E poi perché, francamente, fra l’incubo mee too, le proteste di attori e sceneggiatori contro l’invadenza dell’intelligenza artificiale, il dilagare della cultura woke e del politicamente corretto che condiziona ormai anche le valutazioni dell’Academy nei premi Oscar, ci sarebbero argomenti decisamente più interessanti di cui occuparsi e battaglie ben più coraggiose da condurre nella difesa della settima arte.

Di fronte a tutto questo, difendere i cinepanettoni diventa una battaglia di libertà. Oggi che il nostro cinema sta, faticosamente, trovando una nuova vitalità e battendo nuove strade, oggi che è un film divertente, amaro e impegnato insieme – perfettamente nel solco dei grandi
maestri della commedia all’italiana – come “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi a fare record d’incassi al botteghino, oggi che il nostro cinema è riconosciuto dai successi a livello internazionale da Sorrentino fino a (in bocca al lupo!) Garrone, oggi che i campioni di incassi a Natale hanno l’ironia graffiante e geniale di Checco Zalone, possiamo riguardare a quella stagione del cinema italiano con distacco ma anche con un sorriso. Un filone che, tra pregi e difetti, ha raccontato il lato più popolare degli italiani dei loro vizi e delle contraddizioni, un po’ rappresentandoli un po’ prendendoli in giro. Un’Italia che c’era, che si illudeva che lo yuppismo degli anni 80 potesse rappresentare un nuovo boom economico e che, tra una vittoria ai mondiali e una vacanza sulla neve, provava a lasciarsi alle spalle con un po’ di disimpegno gli anni 70, la loro violenza, i loro misteri. Un genere che si è meritato anche un saggio universitario come “Phenomenology of Cinepanettone” di Alan O’Leary della Leeds University. Se c’è, piuttosto, un cinepanettone davvero indigesto, è quello che stiamo vivendo in questi mesi. Si chiama “Fratelli d’Italia”, come il film di Natale 1989 di Neri Parenti, ma al posto dell’allegria inoffensiva di Christian De Sica commesso che si finge figlio di industriale per sfangarla in Costa Smeralda ci sono improvvisati che si
fingono statisti, al posto di Jerry Calà che tenta l’avventura fedifraga con Sabrina Salerno o di Massimo Boldi tifoso milanista in trasferta, ci sono protagonisti ben più pericolosi: dall’arroganza del potere incarnata dal ministro Lollobrigida che ferma i treni a piacimento, a sottosegretari e parlamentari che giocano con le pistole a Capodanno.
I primi hanno fatto ridere gli italiani e storcere il naso ai radical del Nyt, i secondi rischiano di farci piangere nei prossimi anni.

Luciano Nobili - Italia Viva

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