Non è questione di destra o di sinistra, né di questo o quel giornale. Rispetto agli avvenimenti della vita politica, il giornalismo preferisce all’analisi dei fenomeni la povertà degli schemi. La sardina Mattia Santori ha ragione da vendere: è arrivato il momento di lanciare un grido di allarme e dire basta ai discorsi semplificati. In politica come nel magico mondo dei giornali e delle tv, in cui la politica viene raccontata, descritta, quotidianamente impoverita. A volte assistiamo al paradosso che nello stesso format o nella stessa pagina qualcuno inveisca contro i populisti, contro le banalizzazioni che propongono e che li rende vincenti, e qualcun altro riproponga il luogo comune, ormai quasi maschera della commedia dell’arte, dell’antipolitica che di volta in volta veste i panni del “sono tutti corrotti”, “sono attaccati alla poltrona”, “rubano i soldi”, “ah quelle auto blu”, fino ad arrivare all’ormai quasi mitico “sono dei gran voltagabbana”.

I tre esponenti dei Cinque stelle, Ugo Grassi, Stefano Lucidi e Francesco Urraro, che hanno lasciato il movimento per aderire alla Lega, sono il segno di uno smottamento profondo nella vita politica italiana. I grillini nati come terzo polo, nel momento in cui sono andati al governo, hanno perso la capacità di attrazione sia da destra che da sinistra. La velleità di tenere tutti insieme in nome della rabbia è finita e quando si passa dagli slogan alle scelte è impossibile accontentare tutti. È l’inizio di un nuovo bipolarismo? E come si lega questo nuovo bipolarismo con la riconfigurazione del centrodestra e del centrosinistra a cui stiamo assistendo? Interrogativi, ipotesi di ricerca, osservazioni che sbattono contro il muro dell’espressione ricorrente: “voltagabbana”. La scelta di Grassi, Lucidi e Urraro non viene analizzata come il segno di un passaggio nella vita politica italiana, ma viene considerata alla stregua di un atto esclusivamente personale, quasi che i giornalisti fossero pessimi psicologici alle prese con i comportamenti dei singoli da giudicare armati di una buona dose – mai manchi! – di moralismo. Usare un linguaggio più complesso vuol dire anche questo: andare oltre quello che si considera un tornaconto personale, per aiutare a capire quale fase stiamo attraversando. Ma è sempre più difficile.

Se Greta diventa “gretina”, se Matteo Renzi e Matteo Salvini, accomunati dal Fatto quotidiano, diventano “bimbiminkia”, se tutti vengono ridotti a macchiette, come è possibile alzare il livello? Ci si può accontentare come fa Marco Travaglio di storpiare i nomi e di usare l’editoriale quotidiano per prendere di mira questo o quello, oppure si può tentare di usare un altro linguaggio, di non riportare tutto agli schemi consunti, di dare spazio alla realtà senza per forza chiuderla nelle proprie certezze. E dire che Mattia Santori lo ha capito e lo ha detto. Ma non è servito. Le prime vittime degli schematismi sono loro, le sardine. Descritte dai giornali non per le novità che rappresentano, ma per quanto sono uguali al passato. Santori diventa un capopolo (La Stampa), un autoritario (Il Fatto), un leader tradizionale quasi per tutti. E a forza di raccontarlo in questo modo, chi legge o ascolta inizia a pensarlo così. Non basta dire che le sardine sono belle, che è bello il popolo che portano in piazza, se poi nella stessa pagina si insultano gli avversari politici. L’allarme contro il populismo non riguarda solo la politica, riguarda anche il mondo dell’informazione. Prima di tutto l’informazione.

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