Se il procedimento riguarda un politico, se ne chiedono le dimissioni. Se invece si tratta di un magistrato, si sottolinea che è un “atto dovuto”. Un fatto tecnico, insomma. Il che probabilmente è vero nell’uno e nell’altro caso. Ma l’altra differenza è che il politico guadagnerà sicuramente le prime pagine i titoli cubitali. Al magistrato si riservano i trafiletti. Così è capitato ieri al procuratore di Milano Francesco Greco, nei cui confronti il pg della Cassazione ha aperto “accertamenti preliminari” in seguito all’apertura dell’indagine da parte della procura di Brescia. Un atto dovuto, quindi, ma clamoroso.

Il procuratore capo di Milano, con quel ruolo che vale più di un ministero, sta concludendo la sua carriera (mancano ormai solo due mesi al compimento dei 70 anni) con due pesanti ombre sul suo curriculum solo per un “atto dovuto”? Indagato perché avrebbe rallentato l’attività di indagine del suo sostituto Paolo Storari sulla famosa presunta Loggia Ungheria, un centro di potere composto di imprenditori, politici e alti magistrati che avrebbe esercitato pressioni nelle nomine dei vertici delle procure, tra cui anche la sua. Conflitto di interessi? Negligenza? Scarsa fiducia nel suo sottoposto? Fatto sta che il procedimento a Brescia è aperto, e oltre a tutto è anche nelle mani del procuratore Francesco Prete, un magistrato di provenienza milanese. Uscito dalla stessa cucciolata di Greco, insomma. Ma la seconda ombra è ancora più pesante. Per un magistrato, subire l’avviamento di un’azione disciplinare è una vera onta.

Oltre a tutto, e in particolare dopo che Luca Palamara ha spiegato che il re è nudo e che le correnti sindacali delle toghe sono use a tessere intrighi più di quanto non accada in politica, Francesco Greco sa bene in quale pentola si finisce, anche se a bagnomaria. Anche se, una volta dismessa la toga, anche l’ “atto dovuto” e anche gli “accertamenti preliminari” verranno accantonati. Ma l’ombra sulla carriera rimane, ogni magistrato lo sa benissimo. Resta il fatto che nessuno ne chiede le dimissioni. Che nessuno spara i titoloni. Che, per avere la notizia, si deve andare a spulciare tra le pieghe dei giornali. E che le televisioni si siano spente tutte quante all’improvviso come se ci fosse un guasto a una qualche centralina elettrica. Eppure a Milano è successo di tutto, in questi mesi. È crollato quel sistema delle Mani Pulite che negli anni Novanta è stato un vero maccartismo alla rovescia. E c’è stata una sentenza sull’Eni che quel sistema ha messo in discussione con un giudizio molto severo. E da cui il procuratore Greco non può chiamarsi fuori. Lo ha dimostrato la vera rivolta dell’ufficio nei confronti suoi, ma anche contro lo stesso procuratore generale Salvi, che aveva proposto il trasferimento e il cambiamento di funzioni del sostituto Storari, in nome della serenità della magistratura milanese.

Noi siamo sereni, aveva scritto in un documento la gran parte dei pm, ma anche molti giudici non solo di Milano ma dell’intero distretto. E quando, il 3 agosto, un Csm che fino a quel momento non aveva mostrato di aver capito quel che era successo con le rivelazioni di Palamara e non aveva ancora avviato alcun cambiamento, aveva dato finalmente il segnale di svolta sposando le ragioni di Storari, la botta li aveva colpiti tutti i due. Il procuratore generale della Cassazione, ma anche il capo dei pm milanesi. Davide aveva vinto contro non uno ma due Golia. Sono molti i motivi per cui da un po’ di tempo ci siamo permessi di suggerire al dottor Greco di non aspettare novembre per dare un corso diverso alla propria vita con un prepensionamento. Accidenti, ma che cosa deve capitargli ancora perché capisca che quella “cosa lì”, quella che ha dato lustro a lui e a Borrelli e agli altri della cucciolata, quella del potere e dell’impunità, della superiorità morale fondata sull’imbroglio delle regole, è arrivata già da un po’ al capolinea? Non è degno di lui far finta di niente, come un Davigo, incollato alla nostalgia del potere che fu. Il maccartismo ambrosiano è finito da tempo, le inchieste nei confronti di Berlusconi fanno ridere, quelle contro Salvini non sono mai davvero decollate, altri “nemici” politici non se ne vedono all’orizzonte. Resta solo la maledizione dell’Eni, il fiume carsico che entra ed esce dalle inchieste della procura milanese da trent’anni. Con opposti risultati.

Quella dei primi anni Novanta era facile, in un certo senso. Bastava individuare i tre partiti che si nutrivano di quote di finanziamento provenienti dalle grandi aziende. Poi se ne salvava uno, sempre lo stesso, quello davanti al cui ingresso si fermò Tonino di Pietro, e il gioco era fatto. Anche perché molti politici, anche del partito salvato, avevano ammesso le proprie responsabilità. Negli anni duemila è tutto più complicato. Così il primo inciampo della procura milanese, anzi del suo vertice, avviene quando il giovane pm Storari passa al suo amico Davigo le carte (o la chiavetta) con la testimonianza dell’avvocato Piero Amara sulla Loggia Ungheria, di cui non si sa neanche se esista, ma su cui Greco ha comunque indugiato a indagare. È il motivo per cui è oggi indagato a Brescia e per cui, di conseguenza, sono stati aperti da parte della Cassazione gli “accertamenti preliminari”. Ma c’è di più.

Nello scorso mese di luglio il procuratore capo di Milano si è rifiutato di consegnare ai colleghi bresciani una rogatoria fatta nel 2019 in Nigeria con l’aggiunto Laura Pedio, che indagava insieme al pm Storari su un filone parallelo all’inchiesta principale sull’Eni e chiamato del “falso complotto”. Perché si è rifiutato? Non sono i magistrati a spiegare ogni giorno ai politici che bisogna difendersi “nel” processo e non “dal” processo? Poi ci sono le indagini, sempre a Brescia, cui sono sottoposti i due rappresentanti dell’accusa nel processo Eni, De Pasquale e Spadaro, che avrebbero nascosto importanti testimonianze a discarico nei confronti degli imputati. Quelle prove avrebbero dimostrato anche l’inattendibilità dell’avvocato Piero Amara, il grande accusatore dei vertici Eni.

La domanda dunque è: il procuratore Greco ha “coperto” i due pm e sonnecchiato quando Storari gli chiedeva di indagare sulla Loggia Ungheria e sull’attendibilità dell’avvocato Amara perché riteneva che questi fosse un teste fondamentale per far condannare Eni per corruzione internazionale? Ed era al corrente di quel maldestro tentativo, sempre degli stessi due pm, di far entrare nel dibattimento un’altra testimonianza del Grande Accusatore che aveva definito come “avvicinabile” dagli avvocati della difesa addirittura il presidente Fabio Tremolada che conduceva il processo, con il rischio che questi fosse costretto ad astenersi? Questo è forse il punto più delicato della vicenda, che getta ombre sulla correttezza del procuratore di Milano. Perché lui, che non ha voluto indagare sulla Loggia Ungheria, quasi si trattasse di farneticazioni di Piero Amara, si è invece affrettato a inviarne la testimonianza alla procura di Brescia, quando il Grande Accusatore ha gettato lo schizzo di fango sul presidente Tremolada. Per tutelarne la reputazione? Forse. O forse no.

Che cosa sarebbero tutti questi elementi così anomali, così paradossali, ma anche così in linea alle procedure di coloro che indagarono su Tangentopoli, se non facessero capo a un magistrato ma a un politico, e se finissero nelle mani dei nostri colleghi tagliagole, che sono così in tanti nell’orizzonte del giornalismo italiano? E se esistessero tribunale indipendenti, e non fossero sempre le toghe medesime a indagare sui propri colleghi e sulla casta di magistratopoli? Succederebbe oggi sicuramente qualcosa di peggio della pensione. A qualcuno. Che per sua fortuna è un magistrato e non un politico.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.