L'ombra della Loggia sulle procure
L’addio tormentato di Greco a Milano: da Eni alla Loggia Ungheria, così seppellisce la storia di Mani Pulite

Quando si apriranno questa mattina le porte degli uffici della Procura della repubblica di Milano, il procuratore Francesco Greco, con un piede nella pensione che non si prospetta serena, non può non avere nella memoria recente quella sessantina di sostituti che gli si erano rivoltati, preferendogli il giovane collega Storari. E sul tavolo il pensiero di quel groviglio di fascicoli aperti (uno anche su di lui) che corrono sull’asse Brescia-Milano-Roma e che paiono ormai la vera nemesi storica di quel che fu il glorioso gruppo di Mani Pulite. Una resa dei conti attesa da molti. E il fantasma di quella Loggia Ungheria, massoneria delle toghe potenti che sfiora la sua persona proprio qui, negli uffici in cui i magistrati Turone e Colombo scoprirono la P2, altro fantasma politico.
Fino a ieri tra gli aggiunti ce ne era una sola al lavoro, l’aggiunto Tiziana Siciliano, che si occupa dei disastri ambientali, e quindi di quello della Torre del Moro, un grattacielo di diciassette piani nella zona sud di Milano ridotto a torcia nel giro di quindici minuti. Cronache di vita, angoscianti e lontane dal primo quesito, che potrebbe essere stato il tarlo delle vacanze di Greco, chissà se nella consuetudine della Maddalena: dimettersi, anticipando di tre mesi la scadenza naturale del pensionamento di novembre, allo scoccare dei settant’anni? Ipotesi brillante, che sarebbe piaciuta a quel Francesco di qualche decennio fa, quello che sognava la rivoluzione nel “gruppo del mercoledì”. Di difficile praticabilità da parte del procuratore Greco, che i ponti con quel sognatore li aveva già rotti ai tempi del maccartismo politico-giudiziario di tangentopoli. E che oggi si trova in una posizione di potere in cui le dimissioni anticipate potrebbero parere più una mossa di astuzia, ma debole, che non di coraggio e di forza.
Nel suo carnet, suo e della procura (di ieri e di oggi), c’è la maledizione dell’Eni, il colosso nazionale idrocarburi fondata da Mattei. Da Eni tutto è partito, con la maxitangente Enimont dei tempi d’oro di Mani Pulite e la spartizione tra le forze politiche, con le condanne e la distruzione del pentapartito di governo e il salvataggio di cui immaginiamo si sia in seguito mangiato le mani l’ex pm Antonio Di Pietro, fermo sulla soglia della sede del Pci di via Botteghe Oscure. La soglia mai varcata, nonostante le tante testimonianze sui metodi spartitori di quegli anni: un terzo, un terzo, un terzo. Un po’ ai democristiani, un po’ ai socialisti e un po’ ai comunisti. Nella vicenda Eni di trent’anni fa la Procura aveva vinto, la politica aveva perso. Anche il presidente Gabriele Cagliari, una tragedia in più.
Ma a certuni non basta vincere, si vuole strafare. Così il filone delle indagini su Eni non è mai asciutto, è carsico e non appena il quadro normativo e internazionale lo consente, si riaprono i fascicoli. Casualmente sulla scrivania dello stesso pubblico ministero di tanti anni prima. Ma i tempi sono cambiati. E non sono sufficienti gli esposti di qualche Ong per dimostrare la corruzione internazionale. La prima batosta arriva dal processo “Saipem-Algeria”, in cui l’ex ad di Eni Paolo Scaroni viene assolto in appello dall’accusa di aver versato una tangente di 197 milioni di dollari. È il gennaio di un anno fa. Si comincia a intuire che quel rito ambrosiano che aveva demolito la prima repubblica comincia a scricchiolare. E si arriva alla vera “maledizione dell’Eni”, il processo dell’inchiesta Nigeria, nel quale -siamo nel luglio 2020- il pm De Pasquale chiede 8 anni di carcere ciascuno per l’attuale e l’ex amministratore delegato, Claudio Descalzi e Paolo Scaroni. Gli imputati vengono assolti con la formula più ampia, nonostante il rappresentante dell’accusa contasse molto sulla testimonianza di due personaggi discussi come Piero Amara e Vincenzo Armanna.
Qui entrano in scena il pm Paolo Storari e la loggia Ungheria, quella di cui aveva parlato l’avvocato Amara, un centro di potere massonico, costituito da politici e imprenditori ma soprattutto alti magistrati, che avrebbero condizionato, tra l’altro, la nomina del procuratore capo di Milano. Ma non è per questo che Francesco Greco non accoglie la proposta di Storari di procedere a indagini e arresti. Il fatto è che il testimone Amara è troppo importante per far condannare i vertici Eni. Al punto di preparare un piattino avvelenato nei confronti del presidente del tribunale, che però non andrà in porto. Ecco perché, tra indagini milanesi, bresciane e del Csm (finora ha vinto solo Storari al Csm, gettando nella polvere addirittura il procuratore generale Salvi), Francesco Greco ha un bel da pensare e da decidere. Potrebbe essere lui alla fine a seppellire la gloriosa storia di Mani Pulite.
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