Chi non studia non sa, chi non sa non capisce, chi non capisce sbaglia, chi sbaglia non è libero, etc. Quasi ovvio. Ma se solo ci si azzarda a dirlo si viene insultati per essere politicamente scorretti o per lesa dignità di persone che si credono libere solo perché agiscono scompostamente, etc. mentre sono eterodirette o mosse da irrazionali impulsi lesisi e autolesivi. Decine di studi sui profili di coloro che hanno votato Trump e Brexit, mostrano che il livello di istruzione è il principale parametro predittivo del voto populista. Ma se si dice che il populismo italiano è la conseguenza del grave tasso nazionale dell’analfabetismo funzionale si viene messi alla gogna. Ci saranno sicuramente persone molto istruite che si riconoscono nel populismo e persone poco istruire che lo rifuggono, ma la statistica dice che le persone con bassi livelli di istruzione è più probabile che votino dal lato populista.

“Analfabetismo funzionale” non è un insulto, ma una definizione tecnica, relativa a persone che sanno leggere e scrivere (in Italia l’analfabetismo totale quasi non esiste, trattandosi dello 0,2%), ma non sanno estrarre da un testo il suo preciso contenuto o scoprire che è falso. Dal 28% (fonte Ocse) al 48% (Human Development Index) degli adulti italiani tra 16 e 65 anni è colpito da questa condizione. Siamo ultimi tra i Paesi Ocse e siamo tra gli ultimi in Occidente. Persino i recenti risultati del test Ocse-Pisa certificano il dramma. Paesi che avvertono meno dell’Italia il problema, come la Francia, hanno lanciato dal 2016 una campagna capillare per migliorare i livelli di istruzione media sulla base di interventi fondati su prove di efficacia, e non mere di chiacchiere pseudopedagogiche. L’ascesa del populismo forse non si spiega ovviamente solo o direttamente con bassi livelli di istruzione. C’entrano anche i social media, internet, il fallimento politico della sinistra, la crisi finanziaria, etc. Ma gli effetti di questi fattori cambiano a seconda della base culturale e psicologica delle persone su cui agiscono.  È possibile che la correlazione con la scarsa istruzione sia in realtà una spia di altri fattori. Per esempio, l’apertura mentale delle persone, misurata da test che rilevano specifici tratti della personalità (Big Five) come la disposizione o meno a socializzare, a essere creativi, emozionalmente stabili, interessati alla complessità, etc. Esistono studi sul profilo di personalità di chi ha un orientamento populista, e tutti portano al risultato che è caratterizzato da chiusura mentale e tende a essere convenzionale e tradizionalista.

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Sembra che esista una significativa correlazione tra apertura mentale e prosecuzione degli studi superiori, nonché per orientamenti meno populisti. Ergo, può darsi che coloro che decidono di andare all’università abbiano meno probabilità di avere opinioni populiste, anche prima di ricevere istruzione extra, e i livelli di istruzione potrebbero indicare una apertura preesistente, e livelli di istruzione bassi possono semplicemente segnalare una mentalità più tradizionale o “chiusa”. Alcuni pensano che non siano i livelli di istruzione che qualcuno riceve, a modellare le opinioni populiste, ma il “tipo”. L’educazione contemporanea metterebbe troppa enfasi sul superamento di test, abuso di indicatori bibliometrici o sulle prospettive occupazionali di uno studente, invece di insegnare il pensiero critico e le capacità analitiche. Se non viene insegnato a mettere in discussione ciò che ascoltiamo, il populismo diventa più attraente. Oggi, “pensiero critico” è una delle espressioni più usate anche in Italia, quando ci si lamenta di troppa pseudoscienza o superstizione, ma se si interroga chiunque non si riceverà una definizione uniforme. Eppure, si possono costruire mappe di concetti, teorie, valori e procedimenti utili alle persone per capire e affrontare le sfide della contemporaneità.

Il pensiero critico serve perché i politici avvelenano le statistiche per calcoli personali, ovvero adattano le variabili alla loro argomentazione, dando semplicemente priorità al loro successo elettorale, senza necessariamente mentire. Non hanno alcun interesse a cercare la verità interrogando questioni complicate. Inoltre, lo scontro tra le visioni politiche è controproducente poiché il dibattito quasi sempre si basa sulla polarizzazione, che non mette in discussione la fissità o dogmaticità di presunte verità alternative. La politica ridotta a battaglia demagogica tra fazioni di tifosi minaccia la democrazia in quanto gli elettori sono scoraggiati dal mettere in discussione regimi di verità fisse, proposte come approdi sicuri. Istituzioni come università o partiti politici non possono fare nulla per impedire una tendenza perversa. La mancanza di pensiero critico e il perpetuarsi della demagogia favoriscono la percezione della naturale incertezza dell’esistenza come una ansiogena insicurezza, che accetta risposte acritiche. I politologi degli anni Cinquanta sapevano che l’istruzione svolge un ruolo chiave per la maturazione di un’autoconsapevolezza politica. Tanto più, quindi, in una società della conoscenza dove servono strumenti precisi o definiti per analizzare i problemi e valutare le decisioni. Sempre che siamo ancora in tempo.