Negli ultimi giorni sono state molte le tematiche che hanno toccato l’aspetto sociale, linguistico e politico della nostra società. Dal Rapporto Ocse-Pisa alla polemica sugli articoli denigratori della figura di Nilde Iotti. Ne abbiamo parlato con Vera Gheno, sociolinguista specializzata in comunicazione mediata dal computer, professoressa all’Università di Firenze e collaboratrice per vent’anni all’Accademia della Crusca diventata una delle massime esperte di lingua italiana nel nostro Paese. Dal 2012 fino a giugno 2019 ha curato l’account Twitter dell’Accademia aggiudicandosi così l’appellativo di social-linguista, mentre oggi lavora per Zanichelli.

Qualche giorno fa è stato pubblicato il Rapporto Ocse-Pisa sulla lettura. Cosa ne pensi della statistica? Ritieni che i social con le letture smart abbiano influito sulla difficoltà a leggere?
Non è vera sia la prima che la seconda. E’ quello che ci piace pensare, che la colpa sia dei social. La vera colpa si trova nel non investimento nella scuola. Se consideriamo la literacy degli adulti, in realtà le statistiche sono peggiori. Rispetto ai giovani, gli adulti leggono molto di meno. Non bisogna prendere in considerazione solo questo report come supremo. Se secondo il rapporto Ocse-Pisa uno su quattro ha difficoltà a leggere, altri dati invece ci indicano che un adulto su 100 eccelle nei test della comprensione dei testi. Se dapprima i genitori sono scarsi nella lettura, questo viene inevitabilmente trasmesso ai figli.

Quindi anche l’analfabetismo funzionale che c’è spesso sul web dipende dal poco investimento nella scuola?
Per me l’analfabetismo funzionale che vediamo è sempre esistito, solo che oggi lo vediamo di più. Fondamentalmente la rete ha dato voce a persone che prima una voce pubblica non ce l’avevano perché fino a poco tempo fa il dibattito pubblico era in mano a pochi eletti che avevano la possibilità di far sentire la loro voce. La rete ha dato a tutti un megafono ma non le istruzione per usarlo. Quindi, scelleratamente, noi vediamo il meglio ma anche il peggio delle persone in rete. Quindi vediamo l’emersione nel loro campo, per esempio gli influencer, bravissimi nel loro campo come la Ferragni a cui si può dire tutto tranne che sia brava a fare quello che fa. E poi vediamo il peggio, gli haters, gente che dice improperi che parla senza essere informata. Che però non è una novità. E’ sempre esista, solo si vedeva meno.

A proposito di haters, molto spesso si considerano i social un luogo in cui la vergogna scompare e quindi anche le parole utilizzate sono diventate sempre più standard e dei tag con molteplici significati. Questo dipende da un impoverimento del lessico generale derivato dalla scuola o dal rafforzamento dei Social e dei media?
Intanto, il turpiloquio è il primo rifugio di chi non ha competenze argomentative. In altre parole, se non hai buona proprietà di linguaggio una reazione quasi come un riflesso pavloviano è quella di rifugiarti nel ‘vaffa…’. Quindi questo è frutto sicuramente di una carenza scolastica dove la teoria delle argomentazioni si fa solo da pochissimo tempo. Si fanno i dibattiti argomentativi a scuola, ma è una novità di pochi anni fa. Per quanto riguarda l’assenza di vergogna, più che dai social in quanto tali dipende moltissimo dalla mediatezza, ovvero, ogni volta che noi non vediamo in faccia la persona che abbiamo di fronte nascono questo tipo di problemi. Io faccio sempre con i miei studenti l’esempio della macchina. Anche il più tranquillo dei guidatori quando gli viene tagliata la strada succede che esplode in improperi del tipo “sta zocc…” se è donna poi si va sempre sul meretricio. Quindi non dipende dai social ma dal fatto di non vedersi in faccia. Chiaramente i social amplificano l’effetto e rendono più visibili dei meccanismi che sono sempre esistiti ma che erano meno evidenti. Io non penso che sia in atto un impoverimento generale, ma nelle zone che noi controlliamo di più. Per esempio attraverso i rilevamenti come l’Ocse-Pisa, ci sono altre zone in cui il lessico non è altrettanto povero. Indubbiamente, se leggiamo meno succede che un certo tipo di lessico tendiamo di più a perderlo, questo è certo.

Credi che anche la società consumistica si stia trasformando in un consumo linguistico? Più parole chiave standard vengono veicolate, più attenzione abbiamo…
La società trasforma sempre il consumo linguistico come pure l’avvento di ogni nuova forma di comunicazione. Con l’allargamento della base dei parlanti non è che migliora la competenza comunicativa, ma tende ad abbassarsi. Cioè tecnicamente si parla dell’abbassamento dello standard. Non abbiamo una società di aristoi che parlano tutti come nell’antica Grecia ma abbiamo una società varia con grandissimi alti e grandissimi bassi.

Nel tuo ultimo libro “femminili singolari” tra le tante cose ti soffermi sugli insulti alle donne ricondotti alla sfera intima. Questo perché avviene? I social hanno amplificato questo stereotipo da sempre esistito, si può fare qualcosa per tornare indietro?
Il modo più facile di offendere una donna, da sempre, è quello di far riferimento ad una pratica che è socialmente riprovevole che è il meretricio, la prostituzione. Cioè l’usare l’essere donna come arma per ottenere cose. Si nota che i maschi stessi sono offesi così perché quando si offende un uomo si dice “figlio di p…”, offendendo la madre. Allora diciamo che il primo problema siamo noi che abbiamo interiorizzato queste cose al punto che non ci sembra più strano usarle. E’ chiaro che c’è un problema sociale di fondo che manco percepiamo. Usiamo un insulto che è quanto più di sessista ci possa essere. Mi sembra un problema non da poco. A proposito della possibilità di tornare indietro, io forse sono un po’ maestro Manzi in questo ma ritengo che non sia mai troppo tardi, non tanto per tornare indietro quanto per andare avanti. Non è che dobbiamo ritornare a qualcosa che non c’è mai stato. La società non è mai stata così complessa e non si è mai fatta attenzione alla complessità stessa, alle differenze, alle sfumature. Quindi io penso che dobbiamo solo crescere e imparare a gestire questa grande complessità sociale e cognitiva che ci ha travolti.

In questi giorni c’è stata la ricorrenza della morte di Nilde Iotti, la prima presidente donna della Camera dei Deputati. Sul giornale Libero è stata definita “donna prosperosa, brava a cucinare e brava a letto”. Cosa ne pensi?
Penso che è un’operazione ignobile, che fa parte di quelle orrende cose maschiliste che se poi chiedi al diretto interessato risponderà che non c’è assolutamente nulla di maschilista ma che, anzi, era un modo di mettere in rilievo la parte più umana della persona. In realtà quello che mi fa più paura oggi è il maschilismo di quelli che non si rendono conto di essere maschilisti e ce ne sono tanti. E penso che questo sia molto più pericoloso dei machoni che esibiscono il loro maschilismo perché manco se ne rendono conto. Come del resto molte donne non si rendono conto di essere vittime di tale maschilismo. Come per esempio quando dicono che i nomi femminili non sono importanti, non sono rilevanti. Non sono rilevanti perché a te in prima persona non interessano ma dire che non sono rilevanti è anche togliere fiato alle tante lotte che vanno fatte per quanto possibile per la parità linguistica è da sciocchi

Nel tuo libro parli soprattutto di sdoganare l’importanza di coniugare le professioni e i sostantivi al femminile, in quanto vanno rispettati entrambi. Per questo il neutrale, come in inglese, non sarebbe giusto…
Più che sdoganare l’importanza ritengo che sia importante sottolineare le istanze femminili. Perché poi non è questione di femminismo. Da un punto di vista linguistico l’esistenza dei femminili professionali è giustificata dall’esistenza delle donne in quei ruoli. Una delle cose istintive che l’essere umano fa sempre quando riscontra una cosa nella realtà è appiccicargli o appiccicarle un nome per quanto possibile preciso atto a descrivere quella cosa. Quindi, maestra è normale quanto lo è ministra, ingegnera è normale quanto lo è infermiera. Il fatto che ingegnera e ministra ci diano fastidio dipende dalla inconsuetezza di questi termini che però linguisticamente e anche socio culturalmente sono corretti.

Alma Sabatini nel 1987 ha scritto “Il sessismo nella lingua italiana” alludendo all’uso dei termini puramente maschili per indicare entrambi i sessi. Sembra che in 32 anni non sia cambiato molto…
Io penso che siano cambiate molte cose e che sia un bene che il dibattito sia uscito dalle accademie e dall’ambito prettamente politico per abbracciare tutta la società. E’ vero che è un dibattito più sporco rispetto a quello tra specialisti ma non può che essere un vantaggio perché se le persone ne parlano anche rifiutando l’istanza stessa cioè dicendo che è una cosa che non ha nessuna rilevanza è un piccolo passettino in avanti perché ci siamo resi conto dell’esistenza dell’istanza. Mentre prima l’istanza stessa era in qualche modo nascosta nei meandri dell’Accademia, fra le pagine dei giornali, degli specialistici e così via. Io non penso che non abbiamo fatto passi avanti, ne abbiamo fatti tanti. Per esempio conquistando fattivamente posizioni apicali nel mondo del lavoro. Penso che la conseguenza naturale di questo fenomeno sociale sarà proprio quella di far entrare nell’uso in maniera appunto naturale i femminili professionali.

Sia la Sabatini che la Iotti hanno lottato per i diritti delle donne. Nel linguaggio il rispetto del gender ci sarà mai?
Credo che possiamo essere più precisi e più raffinati verso il rispetto di qualunque tipo di diversità, di differenza, nuance, della realtà e della società. Penso peraltro che la società stia andando verso questa direzione, di dare sempre più attenzione a tutto ciò che non è tradizionale. Pensiamo a tutte le nuove forme di relazioni fra esseri umani che stiamo nominando anno dopo anno, giusto per uscire dalla sola questione dei femminili professionali. Insomma, abbiamo tanta strada da fare ma del resto la società e la nostra lingua non hanno mai dovuto cambiare con la velocità con cui sono costretti a cambiare oggi. Quindi, io sono speranzosa.