L’immigrazione – anzi, direttamente, “l’invasione”, termine imposto dalla stereofonica grancassa di politici disonesti e analisti corrivi – ha cessato da tempo di rappresentare in Italia un tema di discussione o un problema di governo, per diventare la prova provata dell’egemonia culturale sovranista, il segno più eloquente e vergognoso della resa della politica alle parole d’ordine di una xenofobia dall’impronta indiscutibilmente razziale. In teoria, non dovrebbe essere possibile, né intellettualmente ammissibile, discutere dell’immigrazione (in un Paese come l’Italia, o in un continente come l’Europa) a prescindere da considerazioni non diciamo scientifiche, ma almeno fattuali sulla struttura demografica della popolazione, sulla composizione della popolazione attiva e delle relative classi di età, sul contributo che gli stranieri offrono al prodotto nazionale e al bilancio pubblico e sui complicati processi di integrazione sociale e culturale. Invece, in Italia è diventato doveroso, anche da parte di politici del campo nominalmente anti-sovranista, parlare dell’immigrazione a partire da “preoccupazioni”, “percezioni” e “allarmi” indotti con campagne di comunicazione e condizionamento martellanti, dentro e fuori dagli spazi della comunicazione in senso stretto politica.

La stessa rappresentazione del dibattito come uno scontro tra opposti estremismi – tra chi “vorrebbe accogliere tutta l’Africa” e chi “vuole chiudere tutti i porti” – è un prodotto di questa “verità” alternativa (e falsa) che sul tema dell’immigrazione si è appunto imposta come la sola “verità” possibile. Non c’è in realtà alcuna forza politica che proponga la completa deregolamentazione del dossier migratorio. Ma questa rappresentazione intimidatoria degli oppositori alla “immigrazione zero” (che invece ha molteplici sostenitori), impedisce di discutere proposte di passaggio da un regime di sostanziale proibizione a uno di ragionevole regolamentazione, come nel caso della proposta di legge di iniziativa popolare “Ero straniero”, sostenuta in Parlamento da Radicali italiani e +Europa.

Non c’è dunque da stupirsi che sul tema dell’immigrazione il passaggio dal Conte I al Conte II non abbia segnato alcuna discontinuità, né sul piano politico, né su quello normativo. Come sulla prescrizione, anche sull’immigrazione continua a dominare una impostazione, che in nome di un ideale distorto di giustizia o di sicurezza, è disposta a sacrificare o a cancellare i diritti fondamentali della persona umana. I decreti sicurezza, il monumento della stagione salvianiana al Viminale, sono rimasti intatti e continuano a essere intangibili, malgrado i rilievi del Quirinale che Radicali italiani ha chiesto al Presidente Mattarella di ripetere a chiare lettere nel suo messaggio di fine anno agli italiani. L’illusione di una revisione parziale degli accordi con la Libia per il controllo del fenomeno migratorio è stata spazzata via dalla sfida di Haftar, dalla discesa in campo di Erdogan e Putin e dalla certificazione della sostanziale assenza di una vera realtà statuale, oltre che della totale irrilevanza italiana nello scenario libico. La stretta sulla protezione umanitaria, imposta da Salvini, ha prodotto una quantità di nuovi irregolari (stimati intorno ai 70.000) che è doppia rispetto al numero dei migranti sbarcati nel 2018 e 2019 (meno di 35.000), con il risultato paradossale di accrescere ope legis i cosiddetti clandestini, in nome della lotta all’immigrazione clandestina.

L’unica vera emergenza infatti – quella di una quantità abnorme di irregolari impiegati nelle famiglie e nelle imprese italiane e per legge non regolarizzabili – continua a essere elusa e rinviata con danni enormi sia per l’efficienza e la trasparenza del nostro sistema economico, sia per il nostro bilancio pubblico (almeno 4 miliardi di imposte e contributi previdenziali che vanno ogni anno in fumo). Eppure è chiaro a chiunque non voglia negare e rimuovere il problema che solo per non deteriorare ulteriormente la struttura demografica della popolazione (l’Italia ha perso oltre 400.000 residenti tra il 2015 e il 2018), poco più di 10.000 permessi di soggiorno per motivi di lavoro all’anno – quanti ne sono stati rilasciati negli ultimi anni agli stranieri non comunitari – sono del tutto insufficienti. Infatti nello stesso periodo, malgrado un andamento tutt’altro che felice del ciclo economico, il numero di irregolari è raddoppiato passando da 300.000 a oltre 600.000 persone.

Eppure nel nostro Paese è proprio la realtà economica a dimostrare al di là di ogni dubbio che un apporto significativo di forza lavoro straniera non accompagna fenomeni di impoverimento, ma di dinamismo economico. Il caso dell’Emilia Romagna, ad esempio, è paradigmatico, visto che è la prima regione in Italia per incidenza degli stranieri sul totale della popolazione residente (12,1%, anno 2018) e nello stesso tempo quella che registra negli ultimi anni forti performance economiche (il migliore export pro capite italiano) e una disoccupazione inferiore non solo alla media italiana, ma europea. Non mi stancherò di ripetere tutto questo nella campagna elettorale che vedrà impegnate nel prossimo mese le liste di +Europa in Emilia Romagna a sostegno della candidatura di Stefano Bonaccini. La guerra agli stranieri è la guerra al nostro futuro. Basterebbe dare uno sguardo – fosse pure su Wikipedia – ai numeri della popolazione mondiale e al rapporto tra globalizzazione economica e dinamiche demografiche per capire che il sogno funesto di una sorta di immunità etnica del mondo europeo e nord americano appartiene, in ogni caso, al nostro passato. Il nazionalismo che infiamma l’Occidente è la reazione prevedibile a questo stato delle cose.

Ma la responsabilità della politica e delle classi dirigenti dovrebbe essere quella di affrontare i problemi di assestamento legati a queste dinamiche in modo realistico e responsabile, non di aizzare le folle con letture disonestamente cospiratorie, come quella di un progetto di “sostituzione etnica” della popolazione bianca, ordito da oscure centrali finanziarie internazionali per espropriare l’Occidente della sua ricchezza e della sua identità.