Perché la memoria, da sola, non basta: serve il coraggio di dire la verità
Il 9 ottobre 1982 io c’ero nella sinagoga di Roma, oggi c’è troppa ipocrisia: molti si ricordano degli ebrei solo quando sono vittime del passato
9 ottobre 1982 – Io c’ero
Il 9 ottobre 1982 non è per me una data di storia, ma una ferita che non si è mai rimarginata.
Era sabato, giorno di festa. Nella sinagoga di Roma celebravamo Simchat Torà, la gioia della Legge, e come ogni anno venivano benedetti i bambini. Era un momento di allegria, di vita, di comunità.
Poi, all’improvviso, arrivò l’inferno.
Alcuni terroristi palestinesi aprirono il fuoco e lanciarono bombe davanti alla sinagoga.
Un bambino, Stefano Gaj Taché, di appena due anni, fu ucciso. Decine di persone rimasero ferite. Io stesso fui colpito ai polmoni e alle gambe.
Il sangue, le urla, la paura: immagini che non si dimenticano.
Eppure, ciò che fa più male è che quell’attentato non avvenne nel vuoto. Era stato preparato da un clima di odio che da mesi cresceva intorno a noi.
Davanti alla sinagoga, solo poco tempo prima, manifestazioni della sinistra e dei sindacati avevano inscenato una protesta arrivando persino a lasciare una bara davanti ai nostri cancelli.
Un gesto simbolico, ma gravissimo, che indicava gli ebrei romani come un bersaglio politico, come se fossimo i responsabili di ciò che accadeva in Medio Oriente.
Quelle parole, quei cortei, quelle accuse hanno creato un terreno fertile per l’odio. E l’odio, quando lo si semina, prima o poi spara.
A distanza di 43 anni, ciò che spaventa è quanto la storia sembri ripetersi.
Anche oggi vediamo manifestazioni che giustificano la violenza, slogan che negano la verità, accuse che mascherano l’antisemitismo dietro l’antisionismo.
L’atmosfera ricorda in modo inquietante quella del 1938, ma questa volta non arriva da destra.
Nasce in una certa sinistra che, ancora oggi, non riesce a guardare con chiarezza morale alla questione ebraica, oscillando tra l’ambiguità e il silenzio.
Quella stessa sinistra, dopo la guerra, non ha mai spinto l’Italia a fare i conti con il proprio collaborazionismo con il nazismo.
Tra il 1948 e il 1951, più di trentamila ex repubblichini confluirono nel Partito Comunista Italiano senza mai affrontare la responsabilità morale di quanto accaduto.
Così, mentre il Paese cercava di dimenticare, nessuno indagò mai sui fiancheggiatori italiani di quell’attentato alla sinagoga del 1982.
Chi aiutò, chi coprì, chi sapeva: il silenzio è rimasto più pesante del piombo che ci ferì.
Oggi, vedo troppa ipocrisia.
Molti si ricordano degli ebrei solo quando sono vittime del passato.
Ci vengono a trovare nei giorni della memoria, depongono corone, pronunciano discorsi. Ma spesso sono gli stessi che tacciono davanti agli attacchi agli ebrei vivi e a Israele.
A loro voglio ripetere le parole di Golda Meir, che ho fatto mie: “Alle vostre condoglianze, preferiamo le vostre condanne.”
Voglio però anche dire grazie.
Grazie alle forze dell’ordine, che ogni giorno garantiscono la sicurezza delle nostre comunità e la libertà di tutti.
La loro dedizione è spesso ripagata solo con insulti e violenze da parte dei delinquenti che devastano le città durante certe manifestazioni.
A loro va la mia solidarietà e il mio rispetto: perché senza il loro impegno, la storia potrebbe tornare a farsi tragedia.
Il 9 ottobre 1982 non è solo una data da ricordare, ma un monito:
l’odio, se non lo si combatte, ritorna sempre.
E chi tace, chi relativizza, chi giustifica, diventa complice.
Per questo continuo a parlare, a testimoniare, a ricordare quel bambino di due anni, e tutti noi che quel giorno abbiamo visto la violenza travolgere la festa.
Perché la memoria, da sola, non basta: serve il coraggio di dire la verità.
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