Tanti anni fa, quando passavo in Via dei Marsi, a San Lorenzo, quartiere storico di Roma, appena dietro alle Ferrovie Laziali, notando l’iscrizione in memoria di Maria Montessori, che in questa strada organizzò nel 1907 la prima Casa dei bambini, riflettevo incuriosito: da ragazzo sapevo ben poco della nostra grande educatrice il cui volto era stampigliato sulla banconota da mille lire; col tempo invece, come insegnante, ho cominciato a conoscerla meglio, prima ancora che nei libri da lei scritti, a causa delle conseguenze prodotte dalla sua azione rinnovatrice. Perfino nelle esperienze didattiche in apparenza più distanti dal famigerato metodo pedagogico, gratti gratti e trovi spesso il suo zampino. Cosicché la recente biografi a composta da Cristina De Stefano, il cui titolo dice molto se non tutto, Il bambino è il maestro (Rizzoli, pp. 376, 20 euro), è stata per me una lettura molto istruttiva.

Nata centocinquanta anni fa a Chiaravalle, in provincia di Ancona, all’alba dell’unità nazionale, in una casa dove oggi si trova un piccolo museo commemorativo, Maria Montessori, figlia di un funzionario e di una maestra marchigiana, ebbe una vita in tanti sensi straordinaria. Fu una delle prime donne medico, protagonista attiva del nascente movimento femminista, madre di un bambino, Mario (frutto della relazione segreta con Giuseppe Montesano, primario del manicomio di Roma), inizialmente tenuto nascosto, poi ripreso, amato e designato come erede: una ferita profonda e simbolica, ricucita a fatica. Facile comprendere come l’abbandono del ragazzino, comunque sempre seguito a distanza, fosse innanzitutto per lei, paladina dei più piccoli, una spina insopportabile.

Di queste apparenti discrasie è tessuta la sua esistenza: partigiana del libero amore e cattolica fervente, aperta alla sperimentazione disinteressata e accorta amministratrice. Uno dei momenti decisivi della formazione giovanile resta l’incontro coi bambini “frenastenici”, oggi diremmo ritardati mentali, che nel palazzo di via della Lungara, accanto al Tevere, venivano trattati quasi come animali non solo dalle inservienti che avrebbero dovuto occuparsene, anche dal popolo pronto a gettare il cibo verso di loro come se fossero allo zoo. Proprio dall’osservazione attenta di questi piccoli inselvatichiti, Maria comprende il lavoro svolto dal grande Edouard Séguin per il recupero dei ragazzi selvaggi, sulla scia di quanto aveva tentato di fare Jean-Marc-Gaspard Itard con Victor, il randagio ritrovato nel bosco di Laucane, reso famoso dal film di Francois Truffaut. Eccola quindi mettere in pratica tali insegnamenti coi bambini di San Lorenzo, monelli riuniti in bande che Eduardo Talamo, direttore dell’Istitito Romano dei Beni Stabili, tentò di contenere creando i cosiddetti “asili di caseggiato”. Fu quello, per l’appunto, il primo campo d’intervento montessoriano.

Che poi si estese in tante scuole prima in Italia, poi nel resto del mondo, trasformandosi paradossalmente in un modello educativo a vantaggio delle famiglie più abbienti, in grado di pagare rette anche costose pur di assicurare ai propri rampolli una cultura esclusiva, migliore rispetto a quella tradizionale. Rendere protagonista il bambino significa creare intorno a lui l’ambiente necessario a fargli esprimere tutte le sue potenzialità che sono quasi incontenibili nei primi anni della crescita, dotandolo dei materiali utili affinché il suo sforzo conoscitivo non venga mortifi cato da una struttura gerarchica chiusa e punitiva, com’era la scuola di allora.

Puntare l’attenzione sulla fase più creativa dell’infanzia favorì una riflessione filosofica: come se i piccoli della specie umana costituissero la sorgente della civiltà. Aumentare e strutturare l’attenzione e il rispetto nei loro confronti significa prendersi cura della storia e della natura: tale consapevolezza raggiunge una forma compiuta grazie a Maria Montessori che in certe intuizioni, lo sottolinea Cristina De Stefano, dimostrò di essere una pensatrice rivoluzionaria anche in quanto donna, superando perfino il suo maestro francese. Ad esempio nell’alfabetario: «La lettera in carta smerigliata non è una guida per la visione, quanto per il gesto. Il bambino non deve riprodurre il contorno delle lettere di metallo con la matita, come nel materiale di Séguin. Basta che segua con il dito la lettera smerigliata, e così facendo impara il gesto dello scrivere ancora prima di sapere cosa significhi».

L’applicazione del metodo andrà avanti nelle scuole pubbliche di Roma e poi, grazie ai rapporti intessuti dalla sua vulcanica creatrice, si dirigerà Oltreoceano, fino ad assumere una dimensione cosmopolita che lo stesso fascismo tenterà di utilizzare. Mussolini avrebbe voluto servirsi della famosa  pedagoga per contrastare la piaga dell’analfabetismo. Ma una personalità complessa e multiforme come quella della Montessori, capace di suscitare adesione e contrasto, non poteva essere ingabbiata. L’energia e il puntiglio da cui era animata la porteranno come conferenziera di successo negli Stati Uniti, in Spagna, in India, dove a un certo punto sarà confinata insieme al figlio diventato nel frattempo una guida imprescindibile, fino in Olanda, la sede finale, a Noordwijk, in una villa di fronte al mare, dove Maria morirà nel 1952 a ottantadue anni. Qualche ora prima di spirare stava vagheggiando di poter andare in Africa a istruire i bambini poveri.