Processo e politica, la giustizia ovunque
Il caso Almasri e la nuda verità: la Corte Penale che vorremmo non è la Corte Penale che abbiamo

La vicenda Almasri, di cui si occupa la Quarta Pagina, ha sollevato alcun tempo addietro un vespaio. Se ne ascolta ancora oggi la eco negli strascichi interni di un procedimento per favoreggiamento, iscritto a carico dei vertici del governo italiano dalla Procura di Roma, e in quelli internazionali di una procedura di verifica del contegno del ministro della Giustizia italiano, attivata dal Procuratore presso la Corte emittente l’ordine di arresto inattuato; contegno che, obbiettivamente, quell’arresto ha impedito.
In disparte la ridda di opinioni che ne è seguita, focalizzata su quanto occorra a rendere dovuta l’iscrizione di taluno nel registro delle notizie di reato (in Italia si contano almeno 56 milioni di studiosi sul tema), il ministro ha risposto al Parlamento, curioso di conoscere le ragioni del suo operato, ascrivendole all’area tecnico-giuridica e svolgendo cioè riflessioni sulla validità dell’imputazione e dunque del titolo custodiale di cui la Corte domandava l’esecuzione. Le cadenze di quelle risposte, invero, sono apparse a tratti più di mestiere che di sostanza. Tanto più che lo Statuto della Corte Internazionale, l’atto fondativo insomma dell’organo e della funzione, è stato sottoscritto nel 1998 da 120 Paesi; a Roma. Ciò sta a dire che, tra i 120 Paesi sottoscrittori, quello italiano è stato, per così dire, il più convinto tra i fondatori, tanto da ospitare la storica sottoscrizione, finanziarne l’Assemblea e contribuire a vincere, con una marcia popolare partecipatissima, le resistenze di una cinquantina di Stati che, nell’ultima settimana di lavori prima della firma, ne misero a rischio l’approvazione. Insomma, l’inerzia del governo sulla vicenda Almasri è rumorosa.
Ma quale che sia la ragione per cui il ministero italiano ha interrotto la procedura di arresto, per provare a non aggiungere queste poche righe al novero delle opinioni di cui si diceva, mi pare si debba spingere un poco oltre la riflessione, domandandosi se un sistema che ambisce ad esser definito giurisdizionale possa tollerare una falla così decisiva da vanificare il corso delle sue procedure. Un sistema giurisdizionale liberale (non si può ambire a niente di meno nel caso che occupa) si caratterizza, tra le altre cose, per la sua impermeabilità istituzionale alle pulsioni della politica; non della politica soggettiva, intesa come quell’insieme di convinzioni che muovono la mente e la coscienza degli operatori, ma della politica nella sua accezione per così dire più frequente: quella dei partiti, delle opinioni ideali che muovono il loro agire, del compromesso per il governo, della visione collettiva.
E questa impermeabilità è a un tempo cifra e limite della giurisdizione che in ragione di essa, se da un lato non può pretendere di indirizzare le sorti comuni o governare fenomeni – a beneficio di qualche nostro pubblico ministero: nemmeno fenomeni criminali – dall’altro può idealmente operare al riparo dalle spinte esogene delle altre strutture statuali. Al contempo, essa origina dai modi di formazione e dalla combinazione di almeno tre fattori: i criteri di costituzione del giudice; le regole del suo operare; i filtri attraverso i quali si leggono i fatti umani. E qui le cose si complicano.
I giudici della Corte internazionale sono eletti dai rappresentanti degli Stati che hanno sottoscritto lo Statuto (oggi 124); nomina politica, dunque. Il diritto sostanziale che essa applica, imperniato sul criterio di “contestualità” di delitti che altrimenti resterebbero a carattere nazionale, è immerso in acqua torbida quando si parla di tassatività delle fattispecie, riserva di legge, individuazione delle sanzioni (tanto che questo solo tema sommergerebbe tutto il resto). Il suo sistema processuale, infine, come i fatti dimostrano, può incepparsi per il volere di qualcuno che con la Corte non ha rapporti organici (è il caso da cui siamo partiti, appunto), restando dunque agganciato alla cooperazione volontaria, che tale rimane anche quando, chi dovrebbe fornirla, sia stato il più deciso militante dell’istituzione della Corte stessa.
Queste brevi costatazioni, allora, raccontano forse una nuda verità: la Corte Penale che vorremmo non è la Corte Penale che abbiamo. L’ideale di giustizia preme ai confini degli Stati nazionali con maggior vigore che in passato perché gli eventi globali dimostrano non solo che il crimine nella sua accezione più ampia ha esplorato con successo sinapsi impensabili fino al secondo conflitto mondiale, ma anche che la narrazione di tutto ciò viaggia ormai sulle saette della comunicazione in tempo reale. E l’idea che fatti criminali e abominevoli rimangano impuniti per il loro appartenere alla giurisdizione del luogo in cui gli autori continuano magari a governare ripugna e spaventa; la Corte Penale Internazionale non è che il prodotto di una tensione ideale verso quella formula protettiva che potremmo dunque definire la giustizia ovunque. Questa formula, però, mentre presuppone e al contempo potenzia la struttura sovranazionale al costo di deprimere le facoltà dei singoli Stati che la sorreggono, non può implicare la cessione di percentuali rilevanti della forza strutturale del processo liberale.
Forse l’inghippo sta tutto lì: la tassatività delle fattispecie, la riconoscibilità puntuale delle regole e l’effettività delle garanzie, la trasparenza meritocratica nella formazione dell’organo sembrano approdi irrinunciabili, ai quali tuttavia quella che in certa misura resta pur sempre la giustizia dei vincitori non riesce ad ormeggiare stabilmente. O non ci è riuscita fino a qui, visto che la navigazione, necessaria e significativa, per fortuna prosegue.
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