La barbarie delle intercettazioni
Il caso Ferri e l’inciviltà del trojan: la vita privata in pasto a chiunque
«Il trojan è uno strumento incivile». Parola di Carlo Nordio. Il Guardasigilli, intervenendo ieri a una trasmissione televisiva, ha deciso – finalmente – di prendere posizione sull’utilizzo del micidiale virus informatico che trasforma il cellulare in un microfono sempre acceso.
Nel 2017 fu l’allora ministro della Giustizia Andrea Orlando (Pd) ad introdurre questo nuovo strumento investigativo da affiancare alle tradizionali intercettazioni telefoniche.
Il ‘captatore’ doveva essere utilizzato esclusivamente per il contrasto ai reati di eccezionale gravità, come quelli di mafia e terrorismo. Nel 2019, con l’avvento del grillino Alfonso Bonafede a via Arenula, il suo utilizzo venne però esteso anche ai reati contro la pubblica amministrazione, aumentando quindi a dismisura il suo impiego. I reati contro la Pa sono infatti oggi gli unici dove il trojan trova il suo utilizzo. “Il mafioso non parla al telefono”, ha ricordato sempre ieri Nordio. Per stoppare questo uso indiscriminato del trojan, che è in grado anche di accendere le telecamere e di copiare tutti i dati presenti sul cellulare, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin ha depositato questa settimana a Palazzo Madama un disegno di legge per vietare l’utilizzo dei trojan nel contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione.
«Con tale strumento viene registrata la vita privata, i gusti commerciali, l’orientamento sessuale, le preferenze sessuali. Ne vale la pena per il traffico di influenze o altri reati di questa natura? Chi conserverà questi dati? Che uso ne farà? Quali garanzie avranno i cittadini di un utilizzo corretto di questi dati?», si è chiesto Zanettin. Al momento ci sono due indagini, una a Firenze e una Napoli, di cui si sono perse le tracce da mesi, utili a capire che uso è stato fatto di queste informazioni. I fascicoli furono aperti a seguito della denuncia dell’ex deputato di Italia Viva Cosimo Ferri, intercettato con il trojan inserito nel cellulare di Luca Palamara. I tecnici nominati da Ferri appurarono la presenza di server ‘intermedi’ tra il telefono di Palamara e il server della Procura di Roma, l’unico autorizzato a registrare i dati e a trasmetterli alla sala ascolto del Gico della guardia di finanza della Capitale, delegato alle indagini dai magistrati di Perugia.
La società Rcs di Milano, che aveva fornito ai finanzieri il trojan, aveva sempre negato questa circostanza. I tecnici di Ferri, invece, scoprirono che il server non si trovava a Roma, ma addirittura a Napoli, nel centro direzionale. Il numero uno della Rcs, l’ingegnere Duilio Bianchi, dopo aver sempre negato l’accaduto, fu costretto ad ammettere che i dati del telefono di Palamara, prima di arrivare a Roma, finivano in due server a Napoli collocati, ironia della sorte, nei locali della Procura di Repubblica. L’allora procuratore del capoluogo campano Giovanni Melillo, dopo aver revocato qualsiasi incarico a Rcs, decise di iscrivere Bianchi per falsa testimonianza, frode in pubbliche forniture e falso ideologico per induzione in errore dei magistrati di Perugia. Fascicolo poi trasmesso a Firenze.
Ma non solo: il server napoletano avrebbe per mesi ricevuto i dati, accessibili quindi dal personale di Rcs, delle Procure di tutta Italia che in quel momento stavano utilizzando il trojan. “Ciò significa che, potenzialmente, poteva accadere di tutto e ciò è assolutamente allarmante e costituisce, a mio parere, un pericolo per la democrazia di questo Paese”, disse l’avvocato romano Luigi Panella, difensore di Ferri.
Panella su questo scandalo silenziato dai grandi giornali che, invece, si battono in questi giorni affinché il trojan continui ad essere impiegato senza freni, verrà ascoltato in Senato nei primi giorni di gennaio nell’ambito di una indagine conoscitiva sull’utilizzo delle intercettazioni e, appunto, del ‘captatore’.
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