La battaglia sulla fondazione Open è al suo primo, rilevante giro di boa. Non importa sapere oggi chi abbia ragione o torto; se i pubblici ministeri fiorentini abbiano agito nel rispetto della legge o se abbiano leso le prerogative costituzionali del senatore Renzi. Questo sarà importante un domani quando si accerteranno i fatti e saranno pronunciate le sentenze. Ma non oggi. La presa di posizione del Senato che, a larghissima maggioranza, ha deciso di sollevare un conflitto di attribuzioni con la Procura di Firenze, è un gesto che non può essere archiviato nella scia dei trentennali contrasti tra politica e magistratura.

Questa volta c’è qualcosa di più, anzi qualcosa di diverso, di profondamente dissimile da tutti gli altri casi in cui animate contese giudiziarie hanno provocato l’intervento della Corte costituzionale, supremo arbitro delle regole e custode della Carta. Altre volte erano stati i giudici a dolersi dell’invasione delle proprie prerogative da parte del Parlamento o del Governo; erano state le toghe a ritenere che immunità parlamentari fossero state dispensate senza che ci fosse la prova di alcuna persecuzione o adoperate a protezione di ingiuste diffamazioni in danno di privati cittadini. È stata, appena pochi giorni or sono, la Procura generale della Cassazione che ha chiesto alla Sezione disciplinare del Csm di ricorrere alla Corte costituzionale, proprio con lo strumento del conflitto di attribuzioni, contro la decisione della Camera dei deputati che ha inibito l’utilizzo delle intercettazioni eseguite nella vicenda dell’hotel Champagne e in cui sarebbe rimasto impigliata la toga/deputato Cosimo Ferri. E qui le cose meritano una riflessione più ravvicinata.

Notoriamente Matteo Renzi e Cosimo Ferri hanno in comune l’appartenenza alla medesima forza politica. Italia Viva è la loro casa di appartenenza e l’aver ottenuto, alla Camera e al Senato, un doppio risultato di questo genere merita un supplemento di attenzione. Quale sia la reale forza del consenso intorno al partito di Renzi e di Ferri non è dato sapere. I sondaggi sono impietosi, ma si vedrà alla prova delle urne dicono i diretti interessati. Antipatie, odi, rancori sono all’ordine del giorno contro Matteo Renzi, lui stesso ben consapevole di un clima mediatico estremamente sfavorevole e alimentato da radicali campagne di stampa. Cosimo Ferri ha abbandonato la toga qualche anno or sono, ma è stato magistrato che ha conseguito straordinari risultati elettorali all’interno della magistratura italiana e che ha seminato pure lui grandi antipatie al limite dell’insofferenza tra molti colleghi, talvolta sconcertati da messe di voti raccolte tra centinaia di toghe italiane.
La questione meriterebbe un discorso a parte, ma per il momento si può tranquillamente dire che sia Renzi che Ferri hanno abbondantemente viste riconosciute le proprie ragioni dalle Camere di appartenenza, in cui sono pur sempre minoranza esigua.

Ora, si può certo soffiare sul vento del populismo, si può certo adoperare il becero armamentario della demagogia anticasta, ma tecnicamente la situazione è chiara: per Cosimo Ferri si è ritenuto che fosse stato posto in essere una specie di occulto accerchiamento “intercettativo” che avrebbe posto il parlamentare al centro delle investigazioni sull’affaire Palamara a dispetto dei divieti costituzionali di captarne le conversazioni. Per Matteo Renzi siamo all’incirca in quel perimetro sol che si discute di computer, chat e mail. Tecnicamente, dicevamo. Ma non è una tecnicalità neutra, questa. Non solo perché proviene dalla Camera e dal Senato che si sono pronunciati solennemente sul punto, ma perché i voti segnano un chiaro punto di svolta nell’atteggiamento, sinora poco reattivo, delle istituzioni politiche democratiche. Si badi bene: delle istituzioni e non dei partiti o di movimenti che sono certo liberi di esprimere ogni opinione, di formulare ogni auspicio, di sollevare critiche o manifestare solidarietà con le toghe o con chicchessia. Due decisioni delle Camere che, più o meno direttamente, si pongono in diretta collisione con la Procura di Firenze (per Renzi) e con il Csm (per Ferri) e, di fatto, denunciano al paese che appartenenti al Parlamento sono stati al centro di attività processuali (perquisizioni, sequestri, intercettazioni ect.) da ritenersi in contrasto con le prerogative costituzionali di entrambi. Tutti capiamo che non è roba da poco, a prescindere dal merito come detto.

La Sezione disciplinare, probabilmente a breve, scioglierà la riserva sulla richiesta della Procura generale di adire i giudici della Consulta sul caso Ferri. La sensazione o il sospetto che possa essere l’occasione per un fallo di reazione delle toghe contro il Parlamento non può trovare spazio alcuno e solo un certo spirito italico, incline al complottismo, può cedere a questa visione. Sicuramente, però, questa è la prima “rogna” che il nuovo Quirinale sarà chiamato a sbrogliare sul fronte giustizia e proprio tra le mura di Palazzo dei Marescialli che Mattarella presiede. Un ricorso alla Consulta che parta dal Csm contro la decisione presa dalla Camera dei deputati in favore di Cosimo Ferri innescherebbe inevitabilmente delicatissime fibrillazioni costituzionali, giacché (non troppo indirettamente) finirebbe per coinvolgere nella scelta la più alta Magistratura della nazione che, per giunta, nomina un terzo dei componenti della Consulta.

Di questi tempi né le toghe, né soprattutto il paese hanno bisogno di nuove tensioni istituzionali. La Corte costituzionale, presieduta da Giuliano Amato, esce barcollante dalla sessione referendaria e circondata da qualche mugugno. Adesso dovrà infilarsi nella querelle renziana promossa dal Senato, se anche arrivasse sul tavolo della Consulta il ricorso del Csm contro Cosimo Ferri si aprirebbe una partita che porterebbe nel pacchetto di mischia quasi tutti i più importanti palazzi della nazione. Non uno scherzo.