Un voto a valanga, come non se ne ha memoria, quando il Parlamento ha dovuto dirimere uno dei tanti scontri tra politica e magistratura. Il fatto che questo accada a pochi giorni dal trentennale di Mani Pulite è solo una coincidenza. Piena però di suggestivi significati.
L’inchiesta Open finirà davanti alla Corte Costituzionale. Ce la manda l’aula del Senato che ieri ha votato a larga maggioranza (167 voti a favore; 76 contrari, nessun astenuto) il documento già approvato in Giunta per le autorizzazioni che chiede alla Consulta di valutare se la procura di Firenze, indagando sulla Fondazione Open, ha violato le guarentigie del senatore Renzi previste dall’articolo 68 della Carta e dalla relativa legge attuativa.

Ovverosia se è legittimo o meno aver letto e intercettato telefoni, pc e ogni altro supporto elettronico del senatore Renzi, tanto da averci riempito migliaia di pagine di informative della Guardia di finanza. Non tramite acquisizione diretta ma attraverso altri indagati in contatto con l’ex premier. In pratica, per farla breve, anche se Renzi è indagato nell’inchiesta Open per finanziamento illecito, per acquisire la sua corrispondenza (digitale o cartaceo) si sarebbe dovuto esprimere il Senato. Cosa che non è accaduta. Il processo va avanti, il 4 aprile inizia l’udienza preliminare ma non c’è dubbio che il coinvolgimento della Consulta e le cinque diverse sentenze della Cassazione (l’ultima tre giorni fa è senza rinvio e chiude per sempre la storia) che hanno definito “illegittimi” la perquisizione e i sequestri dei telefonini di Marco Carrai (imprenditore amico d’infanzia di Renzi, anche lui indagato ndr), sono destinati a pesare sull’esito dell’udienza preliminare e, nel caso ci si arrivasse, sul processo stesso.

Ma quello che è andato in scena ieri al Senato, in un’aula pure distratta e preoccupata per i venti di guerra in arrivo dall’Ucraina, è molto più di un caso politico-giudiziario. Ieri il Senato ha cercato di riprendere in mano il filo di un discorso che è andato perduto ed è stato logorato negli ultimi trent’anni: il rapporto tra politica e magistratura; il finanziamento pubblico ai partiti; il ruolo delle Fondazioni in politica. Una giornata con due chiavi di lettura: una più tecnica e giudiziaria; una del tutto politica. La parte tecnica-giudiziaria è tutta sul tavolo. “Qui e oggi non parliamo di me, dell’inchiesta Open, delle indagini, di due anni di fatti privati sbattuti in prima pagina – ha detto Renzi parlando in aula per venti minuti – ma parliamo di noi, parliamo di questo Senato, del diritto di fare politica nelle forme consentite. Un diritto che non può in alcun modo essere nella disponibilità della magistratura”. Guai, ha avvertito, se qualcuno ipotizza che “io cerchi di sfuggire il processo: credo talmente nel ruolo della magistratura che sono qui oggi per chiedere che venga fatta chiarezza sollevando un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta e lo faccio portando con me ben cinque sentenze della Cassazione”.

Fare politica “non è reato” è stato il grido di rabbia e dolore dell’ex premier Renzi. “Rubare, diffamare, acquisire in modo illecito i documenti è reato. Io qui oggi difendo la politica e l’idea che sia una cosa diversa dal populismo”. È stato l’ex Presidente del Senato, ed ex magistrato, Piero Grasso a mettere in fila i motivi tecnici di un conflitto “infondato”. Su questa strada però lo hanno seguito i senatori di Leu e i 5 Stelle. Tutto il resto dell’aula ha votato a favore della relazione della senatrice Fiammetta Modena (Fi) che con fare certosino e senza clamore ha scritto e motivato la memoria che ora sarà affidata ai legali per portarla alla Consulta. In quei 167 voti a favore e negli oltre cento senatori assenti, si possono leggere movimenti, messaggi e posizionamenti. Nel centrosinistra, soprattutto. Il Pd si era astenuto in Giunta convincendo i 5 Stelle che era cosa buona e giusta. Tanto poi ci sarebbe stata l’aula. Un’astensione motivata, all’epoca – era dicembre – dal fatto che non era stato possibile acquisire ulteriori documenti dalla procura di Firenze.

Acquisizione a cui Renzi e Italia viva si erano opposti perché era il principio del dettato costituzionale da difendere e non l’inchiesta in sé. Due questioni che il senatore fiorentino non ha mai inteso confondere. La decisione di votare a favore della relazione, e quindi del conflitto di attribuzioni, è maturata nei giorni del Quirinale. Quando Letta ha ritrovato in Renzi un alleato mentre perdeva pezzi – e affidabilità – Giuseppe Conte che pure doveva essere la colonna portante della coalizione. Nelle ultime due settimane due fatti hanno spostato ulteriormente l’ago della bilancia in favore di Renzi: la pubblicazione della lettera di Tiziano a Matteo, chiaramente lo sfogo privato di un padre col figlio, che ha sdegnato persino i più grandi detrattori del leader di Italia viva; la quinta sentenza consecutiva della Cassazione che ha smontato il presupposto dell’inchiesta Open (la fondazione era la legittima articolazione del Pd e non di una corrente renziana). A questo punto Letta si deve essere interrogato seriamente su cosa gli conveniva fare. Un pezzo dei suoi senatori non lo avrebbero seguito nell’accanimento contro l’ex segretario. Il gruppo Senato avrebbe potuto rischiare la spaccatura, circa la metà una decina su 39 si sarebbero schierati in difesa del leader di Italia viva. “Soprattutto dopo che ieri ci ha detto che non ci candida… come vedi noi due non abbiano gli occhi di tigre che invece lui va cercando per il suo candidato perfetto, quello che vuole vincere e non sopravvivere. Neppure a Draghi, sia chiaro” sottolineavano ieri due senatori dem in una pausa alla buvette.

Avvertito chiaramente il pericolo di spaccare tutto – è forte il malcontento tra i gruppi dopo la direzione di lunedì – Letta ha pensato che convenisse cambiare schema. E lo ha fatto. Si è preso la capogruppo Malpezzi, la responsabile Giustizia Rossomando e ha spiegato ad entrambe quale fosse la nuova linea. Che il senatore dem Dario Parrini ha così proposto in aula: “Noi non stiamo attaccando la magistratura e sottoporre il conflitto alla Corte non è mancanza di rispetto né un modo per intralciare le indagini. Anzi, quello che stiamo facendo è un atto di chiarezza che non è mai stato fatto in questi trent’anni”. Il gruppo Pd Senato, quello che si era già schierato con Zingaretti, e poi subito con Letta e non ha mai digerito RenziItalia viva, ieri ha dovuto cambiare copione. Un boccone amaro inatteso e non facile da buttare giù. Gli otto senatori assenti nei banchi del Pd probabilmente non l’hanno voluto fare. Ma la svolta dem va cercata anche altrove. Sarebbe stato rischioso per Letta regalare i voti di Matteo Renzi al centrodestra che non ha mai fatto mistero di voler cavalcare il caso per gonfiare le vele al diffuso senso di sfiducia verso le toghe e allargare il consenso per una radicale riforma della magistratura. “Sia chiaro che noi oggi non votiamo a favore del senatore Renzi” ha detto in dichiarazioni di voto Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. “Votiamo in difesa della dignità del parlamentare, della democrazia e delle istituzioni”.

Soprattutto, Letta deve aver pensato alle politiche del 2023, al “campo largo” da Renzi a Leu passando per Calenda e Conte. E in chiave maggioritaria – se non sarà cambiata la legge elettorale – è meglio ricucire ora con Italia viva. Che va tenuta a bada anche per le possibili anzi probabili iniziative centriste. Così hanno alla fine trovato ascolto, non facile, i ragionamenti portati avanti in queste settimane da alcuni senatori dem, Margiotta, Marcucci, Stefano. Nella riunione di gruppo ieri prima dell’aula la proposta di “assoluzione” di cui era latore Andrea Marcucci non ha trovato alcuna opposizione interna, neanche da parte di Anna Rossomando, che pure in Giunta per le elezioni, sul caso Open e sul conflitto di attribuzione con la Procura di Firenze, si era astenuta. D’altra parte l’ultima agevolazione alla proposta di Marcucci era arrivata proprio dal M5S, che annunciava il suo voto contrario. “Se fossero stati abili, ci avrebbero chiesto di proseguire insieme con l’astensione” ammette un senatore dem, “il loro voto contrario invece è stato il definitivo sciogliete le righe”.

Il segretario del Pd, con il Rosatellum, è davvero convinto di giocarsela nelle urne, e di poter organizzare il proprio trasferimento a Palazzo Chigi. Da questo punto di vista, ogni voto può essere utile, anche quelli di Renzi e di Calenda, che alla fine (verso ottobre) potrebbero essere molto più interessati, di quanto non siano oggi, all’offerta last minute del campo largo. La scelta del sistema elettorale determinerà le alleanze. Sulle amministrative per ora non ci sono molte novità. Ieri Letta ha deciso di tenersi aperte tutte le porte. Mentre il centrodestra dà segnali di ricomposizione. I centristi oggi presentano “Italia al centro”. I 5 Stelle non sanno bene come presentare le liste per le amministrative. E Conte lancia le liste civiche “In Movimento 2050”.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.