Tutto cominciò con quel “Brr che paura” alle proteste del sindacato dei magistrati che lamentavano il taglio delle ferie. Erano i primi di settembre del 2014 e “Porta a porta” inaugurava la nuova stagione con la presenza prestigiosa, sulla poltrona bianca dello studio di Bruno Vespa, del Presidente del Consiglio. Era premier da soli sette mesi, Matteo Renzi, e aveva la baldanza di chi ancora non aveva assaggiato antipasto primo secondo dolce frutta e caffè della tavola imbandita dal Partito Mediatico Giudiziario. Aveva infatti con molta nonchalance in quella serata ancora estiva buttato lì il suo “L’Anm è insorta? Brr che paura! Noi andremo avanti”. Sulla responsabilità civile delle toghe: “Se sbagliano devono pagare”. Sulle ferie: “Vi sembra normale che un tribunale sia chiuso dal primo agosto al 15 settembre? Per aprirlo devi scassinare una banca…”.

Non sapeva ancora il baldo presidente del consiglio che quei sassolini che lui tirava con disinvoltura verso la Casta più potente mai comparsa all’orizzonte della politica, quel partito dei pubblici ministeri in grado di tenere per la collottola i partiti e il mondo economico e finanziario, sarebbero presto diventati slavina. Che sarebbe precipitata su di lui, la sua famiglia, i suoi amici e collaboratori. Già la primavera del 2014 – lui aveva giurato davanti al presidente Napolitano nel febbraio – non era stata del tutto indolore. Di fronte all’esposto di un usciere del Comune di Firenze che si era esercitato in modo seriale a prendere di mira l’ex sindaco della città, la Procura si era ben guardata dall’archiviare quelle che apparivano visibilmente le fissazioni di un dipendente scontento, e aveva aperto indagini. Con un “fascicolo esplorativo”. Che non vorrebbe dire niente, se non fosse stato accompagnato da fanfara mediatica e un po’ guardona, per vedere se l’affitto di quell’appartamento del centro di Firenze fosse stato pagato da Matteo Renzi o dal suo amico Marco Carrai, presidente dell’aeroporto della città e anche della Fondazione Open. Una bolla di sapone, quell’inchiesta, e siamo ancora solo agli aperitivi. Ma si affacciava già il Movimento cinque stelle che, del tutto isolato, cercava di coinvolgere in quella bufala il consiglio comunale di Firenze, mentre Beppe Grillo già twittava intimando a Renzi di rispondere alle sue domande, anche se non erano tredici come quelle di Conte.

L’antipasto arriva pochi giorni dopo la famosa partecipazione di Renzi a Porta a porta. Non ha ancora finito di dire “Brr che paura” che i giornali sono inondati da una notizia che arriva da Genova. Un fatto tecnico, la richiesta di proroga delle indagini da parte di un pm, che torna utile però per far uscire la notizia: Tiziano Renzi, padre del Presidente del consiglio, è indagato nel capoluogo ligure per bancarotta. Da qui in avanti la slavina mediatico- giudiziaria non si ferma più. E ha poca importanza il fatto che quell’inchiesta di Genova finirà in niente, con la procura che dovrà chiedere per ben due volte l’archiviazione prima che la gip si decida. Stessa sorte – la notizia è recentissima – avrà un’altra indagine condotta dalla procura di Cuneo, questa volta nei confronti della madre di Renzi, Laura Bovoli, processata in seguito al fallimento di una società di pubblicità e diffusione di volantini nel cuneese, e assolta perché “il fatto non sussiste” nel luglio di quest’anno, dopo lunghe indagini.

Ma Genova e Cuneo non sono in provincia di Firenze. Perché è nel palazzo di giustizia di quella città che si concentrano tutti i piatti forti di quella tavola imbastita dal Partito Mediatico Giudiziario. Quasi che quel “Brr” fosse stato un vento gelido che soffiava solo da quelle parti. Nel febbraio 2019 i genitori di Matteo Renzi vengono posti agli arresti domiciliari. La richiesta, ottenuta dal gip, è del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco. Un nome che ritornerà, insieme a quello del capo dell’ufficio Creazzo, perché il leader di Italia Viva anche di recente li accuserà di essere “ossessionati” dalla sua persona. Anche perché, solo diciotto giorni dopo i due genitori saranno scarcerati dal tribunale del riesame. Il che di solito significa che non c’era nessun bisogno di quelle manette, pur se solo metaforiche. Ma si sa che gli arresti fanno notizia. È comunque un dato di fatto che tutte le inchieste sull’attività passata dei genitori di Renzi nascevano dalla procura di Genova, che aveva indagato ad ampio spettro su tutte le attività della coppia, poi smistando agli uffici di altre città sulla base delle diverse competenze territoriali. Ed è un altro dato di fatto che, mentre le altre procure hanno archiviato, solo a Firenze i due coniugi sono ancora processati per bancarotta per il fallimento di tre cooperative e già condannati in primo grado a un anno e nove mesi per false fatturazioni.

E ancora a Firenze si apre il fascicolo più assurdo, anche se “a modello 44”, cioè contro ignoti. Ignoti nell’intestazione del faldone, ma non sui giornali. Anzi, in particolare, sull’house organ delle procure. È la famosa storia della telefonata tra Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, indagato in un’inchiesta del procuratore di Napoli John Woodcock, in cui la sua posizione sarà poi archiviata, avvenuta nel 2014 e pubblicata dal Fatto quotidiano un anno dopo. Quella in cui Renzi definiva il premier Enrico Letta un “incapace” e ne preannunciava le forzate dimissioni. Ma quanta confidenza tra i due, deve aver pensato, dopo aver letto il quotidiano, il denunciatore seriale di Palazzo Vecchio. E giù un esposto. Fatto sta che la procura di Firenze indaga, un po’ per le intercettazioni pubblicate un po’ per l’esposto, per vedere se per caso il generale Adinolfi, quando era il comandante interregionale di Emilia e Toscana, non avesse imboscato qualche malefatta del suo “amico” per favorirlo. Altra fuffa, ma intanto la grancassa mediatica è sempre pronta.

Sulla vicenda Consip, il cui coinvolgimento giudiziario di Tiziano Renzi è transitato prima sulla via mediatica che su quella giudiziaria, ha già scritto tutto il direttore Piero Sansonetti. Possiamo solo ricordare come, uscita dall’inchiesta l’ unica imputazione di qualche rilievo, cioè la turbativa d’asta, nel rinvio a giudizio è rimasto impigliato solo il reato più evanescente del codice, il traffico d’influenze. Cioè quello che non si nega a nessuno, anche se lo si presume destinato a sciogliersi come neve al sole. Ed ecco l’ inchiesta “Open”. Quella iniziata il 26 novembre 2019 con un blitz di perquisizioni e sequestri nel miglior sistema delle procure antimafia. Quella che consta di 92.000 pagine. Quella cui partecipa attivamente il giornale di Travaglio, con cinque sei articoli ogni giorno e la pubblicazione di atti riservati e anche “sensibili” come gli estratti di conto corrente. Quella in cui la procura di Firenze ha notificato la chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per 11 persone e 4 società, e un giudice avrà il compito, strettamente politico, di decidere se la fondazione che organizzava le Leopolde fosse o no una sorta di braccio armato del Pd.

Proprio quella, oggi rischia di essere la buccia di banana della Procura di Firenze. Per capirlo basta rileggere quel che ha già scritto la cassazione quando ha denunciato un certo sistema dell’organo dell’accusa: quello di setacciare migliaia di documenti per vedere se c’è qualche reato. E’ il sistema che in dottrina viene chiamato del “tipo d’autore”: prima individuo la persona da indagare, poi cerco il reato che eventualmente ha commesso. Trovato uno come Matteo Renzi, per esempio. Magari con tutta la famiglia, quella affettiva e quella politica. Poi vediamo che cosa hanno fatto. Ma intanto sbattiamoli per qualche anno sui giornali.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.