La riforma dell’Ordinamento giudiziario riveste un ruolo cruciale nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). La vicenda Palamara, del resto, ha messo a nudo delle patologie prima note solo agli addetti ai lavori: strapotere delle correnti, carrierismo, corporativismo e autoreferenzialità. Vizi purtroppo tipici della peggiore politica, che hanno contagiato anche chi esercita una funzione tanto essenziale, quanto delicata, per lo Stato di diritto, creando forte disapprovazione popolare. Prova ne è il gran numero di firme già raccolte sui quesiti referendari proposti da Radicali e Lega.

L’obiettivo che il PNRR si propone di conseguire con la riforma è doppio: – i) “ottenere un generale miglioramento sull’efficienza e sulla complessiva gestione delle risorse umane, attraverso una serie di innovazioni dell’organizzazione dell’attività giudiziaria”; – ii) “garantire un esercizio del governo autonomo della magistratura libero da condizionamenti esterni o da logiche non improntate al solo interesse del buon andamento dell’amministrazione della giustizia”. Fin qui, tutti d’accordo. Il problema si pone quando i buoni propositi devono diventare leggi, perché si affrontano tematiche complesse, sotto il profilo tecnico, e si toccano interessi consolidati, per di più in un contesto politico complicato. Sono stretti anche i tempi, dato che l’attuale Csm – in cui 7 componenti togati si sono dimessi per lo scandalo Palamara – scadrà a settembre 2022. Dunque è un arduo percorso: che non è però rinviabile, se non a discapito della nostra credibilità internazionale e del buon esercizio della giurisdizione. Basta pensare che lo Stato italiano, nel 2020, ha dovuto corrispondere indennizzi per ingiusta carcerazione per oltre 36 milioni di euro (e per oltre 40 milioni di euro nel 2019).

Abbiamo perciò deciso di dedicare la nostra assemblea annuale, la scorsa settimana, a un dibattito sulla riforma dell’Ordinamento giudiziario, cui hanno partecipato Francesca Biondi, vicepresidente della commissione Luciani, insediata dalla Ministra Cartabia per redigere la proposta governativa, Filippo Donati, membro laico del Csm e Niccolò Zanon, giudice costituzionale. I lavori sono stati coordinati da Aldo Travi, giurista milanese e nostro consigliere, il cui intervento è scaricabile sul sito www.italiastatodidiritto.it. Il punto di partenza per impostare una costruttiva riflessione critica è la necessaria consapevolezza che l’indipendenza della magistratura non è soltanto una garanzia rispetto ad altri poteri, ma significa anche indipendenza di giudizio, capacità di non essere condizionati da altri magistrati e terzietà anche nei confronti dei colleghi più vicini. Inoltre, va preso atto che il Csm, da organo di garanzia, si è trasformato spesso in un fattore di isolamento, gestione del potere e autoreferenzialità.

Nell’attuale contesto, la proposta della commissione Luciani va letta positivamente. Forse poteva essere più coraggiosa su alcuni aspetti, come il voto degli avvocati nei consigli giudiziari, o la disciplina dei magistrati fuori ruolo: ma le va riconosciuto di avere trovato un limite nell’esigenza di dover lavorare sul testo elaborato dal Ministro Bonafede, e di cercare una mediazione tra forze di maggioranza molto eterogenee. Gli interventi prodotti sono comunque numerosi e significativi. È stato abolito il sorteggio dei componenti togati del CSM, perché non in linea con il dettato costituzionale; modificato il sistema elettorale per ridurre logiche spartitorie delle correnti; scommesso sulle valutazioni di professionalità; valorizzato il ruolo dei membri laici nei consigli giudiziari; opposto un limite al carrierismo, prevedendo che gli incarichi direttivi debbano durare almeno 8 anni; scoraggiato con misure dissuasive il passaggio da incarichi giudiziari a politici e viceversa; ridotto il numero dei magistrati collocati fuori ruolo, ridefinendone i presupposti.

Interventi più strutturali – come il rinnovo parziale del Csm, la riforma del ruolo del vicepresidente, la separazione delle carriere tra giudici e PM, l’istituzione di un’Alta Corte per la giustizia disciplinare – si potranno fare con legge costituzionale, all’interno di un dibattito a tutto campo sul ruolo della magistratura. Ma sono necessarie solide, e ampie, convergenze politiche che non caratterizzano l’attuale maggioranza di Governo. L’approvazione del lavoro della commissione Luciani sarebbe perciò una dimostrazione di responsabilità da parte del Parlamento. Inoltre, potrebbe essere il miglior punto di partenza per mettere mano, nella prossima legislatura, a riforme più organiche, anche tenuto conto della volontà popolare che verrà espressa dal referendum e dalle elezioni politiche.