Palazzo dei Marescialli, sede del Consiglio superiore della magistratura, è su piazza Indipendenza a pochi metri dalla stazione Termini e quando Repubblica abitava su quella stessa piazza prima di emigrare a largo Fochetti, per noi giornalisti era impossibile evitare di andarci a sbattere, almeno con lo sguardo. È un curioso edificio fascista decorato all’esterno con festoni di testoline elmettate di Benito Mussolini. In quel Palazzo abita anche la sezione che si è permessa di bocciare un atto del governo della Repubblica, e cioè la riforma Cartabia. Non avendo alcun titolo per esprimere pareri sul governo che gode della fiducia del Parlamento.

È un atto eversivo? Sì, è – nelle intenzioni – un gesto che tende a minare pur senza averne i poteri, la legittimità delle decisioni dell’esecutivo. L’Italia ha una sua anima nera che ancora sopravvive. Settantasette anni fa in questi stessi giorni di luglio, dopo il terribile bombardamento di Roma avvenuto il 19 di quel mese, il re e un gruppo di gerarchi fascisti, dal genero di Mussolini al quadrumviro Bono all’ex ambasciatore a Londra Grandi, decisero di far fuori il Duce approvando un documento che restituiva a Vittorio Emanuele il comando supremo delle forze armate di un paese in guerra, anzi in disfatta.

E ci riuscirono. Il fascismo italiano è l’unica dittatura al mondo abbattuta con un voto di sfiducia espresso da un organismo costituzionale, e come si direbbe oggi “dopo lungo e approfondito dibattito” iniziato la sera del 24 luglio e durato fino all’alba del 25, con la messa in minoranza del Duce che, quando tornò stremato a villa Torlonia trovò la moglie Rachele che lo rimproverò: «Mo’ Ben! Ma perché non ti sei portato un po’ delle tue camicie nere e li facevi fuori tutti?». Mussolini bofonchiò dicendo che il giorno dopo avrebbe rimesso a posto le cose andando a trovare il re a Villa Savoia, ma quando arrivò il piccolissimo sovrano gli comunicò di averlo già sostituito col maresciallo Badoglio. «Che ne sarà di me e della mia famiglia?» chiese il Duce cadendo affranto sul divano. Il re rispose che era stato già tutto predisposto per la sua sicurezza e senza dirgli che era agli arresti lo fece salire su un’ambulanza piena di carabinieri e fu la fine del regime fascista in Italia. Quel che accadde dopo fu la guerra contro un’invasione che determinò un nuovo stato di guerra.

Ma è impossibile guardare Palazzo dei Marescialli con tutte quelle testine di Mussolini con l’elemetto e non ricordare anche quel nodulo di genetica fascio-complottista. Non è la prima volta e la storia è nota. Anzi, non la ricorda quasi più nessuno ma c’era una volta non un re, ma un Presidente di questa nostra Repubblica che, di fronte ad un comportamento che considerava eversivo da parte degli abitanti del Palazzo dei Marescialli con tutte le sue testine in elmetto – considerato che era lui stesso il Presidente di quella nobile istituzione grazie alla quale gli italiani dovrebbero veder tutelato il diritto alla giustizia rapida giusta attraverso l’indipendenza dei funzionari statali che la esercitano – pensò che fosse l’ora di mandare un segnale.

E come segnale mandò un reparto di Carabinieri in ritenuta antisommossa, bastone, elmetto, gas lacrimogeni, armi da fuoco e scudi. Il Presidente era Francesco Cossiga e la sua reazione non fu molto diversa da quella del Senato romano quando uno dei generali della Repubblica in aperta ribellione contro lo Stato attraversò il confine che separava l’area militare da quella civile e fu ripagato con le Idi di marzo. Qui non ci saranno Idi di sorta come non ce ne furono trentasei anni fa, nel 1985, quando un tentativo eversivo fu soffocato con la semplice minaccia di un intervento della polizia. Allora come oggi il Csm era un ente che dovrebbe tutelare gli italiani dai rischi di una magistratura di parte e che è diventato lo strumento di potere delle correnti più partigiane. Il Capo dello Stato è formalmente il Presidente del Csm, che per tradizione è guidato da un vicepresidente. Al tempo di Cossiga il Csm aveva come vicepresidente un democristiano di sinistra, Giovanni Galloni, in guerra aperta col Capo dello Stato.

Oggi siamo di fronte ad un altro comportamento eversivo di portata incalcolabile perché inedito: in maniera del tutto arbitraria, senza cioè averne i poteri, la sesta sezione del Consiglio superiore che ha l’incarico di esaminare le leggi approvate dal Parlamento o decretate dal governo per renderle efficaci ed effettive nell’esercizio della giustizia, ha estratto la pistola e ha espresso un parere negativo sulla riforma Cartabia, senza averne il potere legittimo. Questa, se non ci sbagliamo, si chiama insurrezione contro i poteri dello Stato. Cossiga mi raccontò con grande passione la storia dell’invio dei carabinieri a palazzo dei Marescialli, i cui abitanti subito si arresero uscendo simbolicamente dalle vie laterali. Il Capo dello Stato di quell’epoca, che certo i poteri forti di quell’epoca non vedevano l’ora di levarselo dai piedi, altro che far viscidamente balenare l’ipotesi di una rielezione, col suo martellante e consonantico accento sassarese.

Mi disse: «Noi sardi del Regno di Sardegna e Piemonte abbiamo fatto questo Stato e non permetteremo a nessuno di distruggerlo trasformandosi in banda armata. Alle bande armate che si oppongono allo Stato noi opponiamo l’Arma dei Carabinieri e poi vediamo chi è più forte, se la banda armata o l’Arma dei Carabinieri», la parte dello Stato che – allora come oggi – tramava per sostenere quella parte della magistratura che pretenderebbe di fare le leggi anziché rispettarle perinde ac cadaver, tentò di far saltare la presidenza di Cossiga facendolo internare con certificato medico per sostituirlo con un direttorio di sedicenti che avrebbe dovuto rispristinare la dittatura giustizialista. La struttura eversiva di oggi è la stessa, per forma e per contenuti.

Abbiamo udito toghe dichiarare che se la legge Cartabia fosse approvata allora tanto varrebbe andare a delinquere, e vediamo che tutto il fronte pentastelluto è in limacciosa maretta perché fra i due mali, una giustizia eternamente inefficiente e persecutoria e l’adozione di limiti che impediscano la persecuzione a vita, scelgono senza esitazione la persecuzione a vita. Non perché sia giusta, ma perché così vuole la loro “base” che nel frattempo si è squagliata in rivoli di formiche.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.