«Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo, o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000». Così recita il comma 1 dell’articolo 290 del codice penale. Si parla di vilipendio – spiega la dottrina – quando qualcuno pubblicamente offende, usando termini volgari o denigratori soggetti dotati di particolare dignità sociale.

Il fatto che il vilipendio sia punito con una multa non ne esclude la natura di reato. Probabilmente, il legislatore, consapevole che il vilipendio confina con l’espressione della libertà di opinione, ha inteso confermare, in via di principio, la fattispecie del reato punito, tuttavia, con una pena praticamente simbolica. Ovviamente non intendiamo attaccarci ad una norma tuttora sospesa tra un passato autoritario ed un presente democratico.

È giusto però sottolineare come non sia consentito prendere a calci le istituzioni, col pretesto del diritto di manifestare il proprio pensiero. Soprattutto quando il vilipendio è esercitato, dall’interno delle istituzioni stesse, a opera di alti magistrati soggetti alle leggi. Certo, si potrebbe disquisire a lungo sui concetti di legalità e giustizia. Anche nei regimi autoritari vi sono atti che hanno valore di legge, ma che magari disattendono i principi del diritto.

I giudici che applicavano il codice Rocco, si attenevano al diritto positivo in vigore, ma venivano meno rispetto a quei diritti dell’uomo e del cittadino sanciti dalla Rivoluzione francese o impressi nella Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti d’America. Tornando al tema del vilipendio in quale altro modo può definirsi quanto ha affermato in audizione il procuratore generale antimafia, Federico Cafiero de Raho a proposito della riforma della giustizia presentata dalla ministra Cartabia: «Mina la sicurezza del Paese» (sic!) la riforma della prescrizione con la norma sulla improcedibilità che scatta se il processo in appello non si conclude in 2 anni e in Cassazione in uno, indipendentemente dalla gravità dei reati per i quali si procede. E senza risorse aggiuntive per gli uffici giudiziari, con «tempi così brevi per l’appello», si prospettano «conseguenze molto gravi nel contrasto alle mafie, al terrorismo e alle altre illegalità».

Non è da poco accusare un governo ed un ministro di minare la sicurezza del Paese, soprattutto quando Marta Cartabia è una ex presidente della Corte Costituzionale e a presiedere la Commissione che ha elaborato il testo è stato l’ex presidente Giorgio Lattanzi. Anche il procuratore più procuratore d’Italia Nicola Gratteri ha scomodato “la sicurezza”. Ma ha superato se stesso in un acuto frangicristalli in occasione di una intervista a Il Domani, ripresa da Giuseppe Sottile su Il Foglio. Come se fosse appena uscito da una seduta spiritica Gratteri ha assicurato che «Falcone e Borsellino si saranno girati tre volte nella tomba a sentire questo tipo di riforma». Poi ha proseguito alzando i toni dell’indignazione: «Conosco l’integrità di questi grandi uomini morti in nome di un’idea, penso che non bisognava nemmeno avvicinarsi alla tomba, alla lapide di questi grandi uomini nel momento in cui si produce un sistema di norme che favorirà i faccendieri e i mafiosi». Se Gratteri può parlare così non è frutto di un’intemperanza casuale.

Ma l’ennesima “licenza” che si prende un beniamino della subcultura manettara, lo “sceriffo” della Calabria, colui che nel saldo tra persone arrestate e rimesse in libertà ha sempre da perdere. Questa deriva ha un inizio: quando il pool di Milano nel 1992 insorse contro il decreto Conso, tra l’entusiasmo del “popolo dei fax”. Ecco perché la sfida in cui sono impegnati Draghi e Cartabia è molto difficile, nonostante la loro fermezza: perché si tratta di andare controcorrente rispetto ad un’opinione pubblica sobillata, che da tanti anni ha condiviso la cattiva medicina del giustizialismo, ha bevuto alla fonte del kombinat mediatico-giudiziario, si è esercitata nella pratica della gogna, sostituendo una sorta di moralismo d’accatto ai principi del diritto.