È tutto in regola. Non c’è nessuna anomalia. Anzi. Con una memoria di ben ottantasei pagine, infarcita di richiami giurisprudenziali, sentenze e massime assortite, la Procura generale della Cassazione ha chiesto ieri alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura di rigettare tutte le eccezioni sollevate dalla difesa dell’onorevole Cosimo Ferri. Per l’avvocato generale Pietro Gaeta e il sostituto pg Simone Perelli, quelle dell’avvocato romano Luigi Panella, difensore del parlamentare di Italia viva e storico leader delle toghe di destra di Magistratura indipendente, sono doglianze prive di fondamento.

Ferri è accusato di aver tenuto un comportamento gravemente scorretto nei confronti di alcuni colleghi e di aver cercato di condizionare l’attività del Csm in tema di incarichi dei magistrati. Alla base delle contestazioni disciplinari, le intercettazioni effettuate la sera dell’8 maggio 2019 all’hotel Champagne tramite il trojan inserito nel cellulare dell’ex zar delle nomine Luca Palamara. «Perché intercettare Palamara per fatti commessi tre anni prima?», aveva affermato Panella, chiedendosi anche «perché solo il suo telefono venne intercettato con il trojan e non quelli dei corruttori?» L’avvocato di Ferri aveva azzardato una risposta: gli inquirenti erano interessati a conoscere i “rapporti fra Ferri e Palamara”.

Ferri, è invece la tesi della Procura generale della Cassazione, era entrato nell’indagine di Perugia in maniera del tutto “casuale” e “fortuita”. I magistrati umbri non avevano nessun elemento che facesse pensare a un coinvolgimento di Ferri nell’indagine per corruzione a carico di Palamara, del faccendiere Fabrizio Centofanti e degli avvocati Piero Amara e Stefano Calafiore. «Ciò che si deve sottolineare con fermezza, fugando ogni sorta di ambiguità o di allusione, è che l’obiettivo delle indagini penali avviate dalla Procura della Repubblica di Perugia non fu mai, né prima né dopo, Ferri», scrivono a piazza Cavour. Non si è trattato, dunque, di “intercettazioni indirette”. La Procura generale per avvalorare questa tesi ha deciso di fare il colpo ad effetto. Se fosse vero quanto affermato da Panella, i magistrati avrebbero commesso dei reati. Loro, non i finanzieri del Gico che hanno proceduto agli ascolti.

Sono i magistrati che hanno «richiesto, motivato, prorogato, delegato alla pg per l’esecuzione e poi ascoltato e valutato». Sarebbe un reato “grave”, un abuso d’ufficio del quale erano perfettamente consapevoli. Commesso, poi, con il dolo di aggirare le guarentigie che prevedono la richiesta di autorizzazione alla Camera di appartenenza. Non un «errore procedurale o una involontaria violazione di legge nella gestione di una indagine (come capita quotidianamente in decine di indagini in Italia) ma un callido disegno criminoso perseguito con lucida consapevolezza, volto a finalizzare in modo completamente diverso ed illegale un’indagine».

Si tratta di affermazioni oltremodo impegnative, quelle della difesa, per «le notevoli responsabili che si assumono di fronte al collegi»”. In altre parole, se la Sezione disciplinare in caso di accoglimento delle istanze della difesa Ferri metterebbe in discussione tutto l’operato dei pm umbri. La Procura generale smonta, poi, la narrazione dell’asse fra Palamara e Ferri per le nomine. Ferri non era affatto un interlocutore abituale di Palamara, ricordano dalla Procura generale. II rapporto fra i due era occasionale e saltuario. Una occasionalità che aveva, però, portato alla nomina di David Ermini a vice presidente del Csm e stava per riuscire a nominare il procuratore di Roma.