La recensione
“Il Polacco”, l’amore a suon di piano. La poetica della vecchiaia nel libro di John Maxwell Coetzee
Beatriz, la signora borgese di Barcellona, è in bilico su un confine dai contorni incerti e di un desiderio inatteso che lei a volte rifuta e a volte accoglie in punta di piedi
Sfoltire l’inessenziale, potare il contesto, sfrondare le descrizioni, tutte, fino quasi a farle fuori, e arrivare a comporre la storia d’amore di due protagonisti in una sequenza di punti enumerati in cui l’azione è talmente contratta da somigliare a una molla che è pronta a schizzare. L’operazione stilistica che J.M. Coetzee persegue nel suo ultimo romanzo, Il Polacco (Einaudi) è nel segno della sottrazione. Quasi fosse arrivato alla conclusione, dopo anni di mestiere, di storie immaginate e rincorse e offerte ai lettori di tutto il mondo, dopo essere stato insignito del premio più prestigioso, un Nobel, che è nella chiarezza formale e nella semplicità drammaturgica il posto della letteratura. “In arte, tutto ciò che è inutile nuoce”, ha scritto André Gide, e Coetzee sembra aver accolto questa massima con il rigore di cui è capace.
Se David Lurie, lo stimato professore universitario protagonista diVergogna (Einaudi), uomo che ama le donne, uomo alpha che corteggia le donne con una sicumera ereditata da secoli di predominanza, ma che poi, in seguito alle accuse di molestia che gli vengono mosse da una studentessa, finisce, rifugiatosi a casa di sua figlia e in seguito a una selvaggia aggressione, per interrogarsi sulla violenza, e sull’infondato sentimento di vergogna di chi è vittima, la protagonista di Il Polacco si interroga, al contrario, sull’amore. Beatriz è in bilico su un confine dai contorni incerti, come sempre accade quando si tratta di un sentimento, e di un desiderio inatteso che lei a volte rifiuta e a volte accoglie in punta di piedi: quello di trasformarsi per l’anziano pianista che la corteggia in una musa; oggetto dei suoi pensieri, oggetto delle sue voglie dal sapore autunnale, mai dirompenti, e anzi lievi, crepuscolari, una fiamma viva seppure tenue, ostinata seppure espressa sottovoce, e tuttavia vibrante.
È una poetica, quella messa in atto da Coetzee, che sembra assecondare il lento incedere di un’esistenza giunta alla sua ultima stagione, la vecchiaia. E così via le ossessioni, gli orpelli del furore e dell’intemperanza, non c’è spazio per voci narranti introflesse o troppo nevrotiche, cariche di pensieri e di supposizioni, di speranze e di paure. Al loro posto c’è la limpidezza di una dichiarazione d’amore che non teme rifiuti, il candore di un settantenne invaghito di una donna più giovane di lui che però sente quanto valga la pena corteggiarla. E allora, lui a suo modo si lancia. È una lingua antiquata, quella di cui si avvale questo corteggiamento, come la lingua che l’uomo è costretto a usare con Beatriz per porgerle con cordiale insistenza i suoi inviti a raggiungerlo. I due comunicano fra di loro in un inglese stentato, mai colloquiale, da cui emerge la musicalità di parole in disuso, tenere e libresche. Sei graziosa, dice lui. Ha ancora un significato l’essere graziosi, e se sì quale? si chiede lei. “Tra un uomo e una donna, tra due poli, si crea elettricità oppure no. È sempre stato così dall’inizio dei tempi. Un uomo e una donna, non semplicemente un uomo, una donna. Senza e non c’è congiunzione”. Fra loro è ancora possibile una congiunzione, nonostante gli ostacoli messi in mezzo dalla vita pregressa, il matrimonio di lei, la vecchiaia incessante di lui? Innamorarsi quando non si ha più nulla da offrire, né un progetto né un futuro che sia esteso.
Amarsi per quel che si è, e non per quel si dà. Invecchiare mentre si è in viaggio per il mondo, in uno spazio libero dove è ancora possibile invaghirsi di una donna senza chiederle altro che uno scampolo della sua presenza. Tutto questo grazie alla musica, il mestiere che il polacco ha scelto in gioventù, la sua vocazione, che si ripete identica nelle esecuzioni che fa di Chopin, per nulla romantiche, piene di controllo, e severe, come è severa l’asciuttezza di una vita che scorre inesorabile verso la fine, come lo è il fraseggio che l’autore sceglie di comporre sulla tastiera di un alfabeto ripulito d’ogni tentazione di dire di più, quanto lo è il suo sguardo privo di illusioni, eppure tenero, tenerissimo, nonostante risuoni a qualche giro di intensità in meno, o forse, invece, proprio in virtù di questo.
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