L'addio all'intellettuale
L’ultimo paradosso di Albero Asor Rosa: “Far apparire in superficie l’interiorità”
Non si è mai preparati alla perdita di persone a cui ci ha legato un’amicizia profonda e con cui si continua a dialogare da anni, anche quando gli incontri si sono fatti più rari. Prima di sapere della sua morte, il 21 dicembre 2022, Alberto Asor Rosa era nei miei pensieri, non solo perché sapevo che non stava bene, ma perché avevo deciso di riportare nelle ultime pagine della ristampa del mio libro Come nasce il sogno d’amore la lettura che ne aveva fatto appena uscito, nel 1988, pubblicata successivamente nel suo libro Un altro Novecento.
Mi aveva sorpreso allora la sintonia con i temi del libro, ma anche la generosa attenzione verso chi, come me, l’aveva attaccato in precedenza per le sue posizioni rispetto all’occupazione dell’Università di Roma nel febbraio del 1977. In quel lungo articolo su Repubblica (1988) – “Interrogando Sibilla” – c’erano già alcune delle intuizioni che ci avrebbero avvicinato ogni volta che usciva uno dei nostri libri, con uno scambio di pensieri abbastanza raro tra il docente e critico noto della letteratura italiana e una femminista libertaria lontana dall’accademia. Posto nella forma del “sogno d’amore”, come “fusione di due esseri in uno”, attraverso la storia di Sibilla Aleramo, a venire in primo piano nella scrittura di una donna – “che parla per sé, ovviamente, ma anche per quell’interlocutore muto e assente che le sta di fronte” – era, secondo Asor Rosa, il desiderio di ritrovare l’umano nella sua interezza, “né solo natura né solo cultura, né solo maschio né solo femmina”.
Che l’uscita dal dualismo fosse così presente anche nel suo percorso intellettuale, sia pure per vie più sotterranee, l’avrei scoperto casualmente qualche anno dopo, quando trovai il suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1985). Non ricordo per quanti mesi l’ho letto, riletto e trascritto fino a farne un libro di culto, prima di inviargli una lettera che dicesse la profonda emozione con cui mi ero riconosciuta in quel “quaderno di appunti, note, osservazioni, pensieri sui problemi fondamentali dell’esistenza”. Mi rispose, felice e sorpreso a sua volta del fatto che avessi portato allo scoperto un libro nato in un passaggio doloroso della sua vita e poi lasciato in soffitta dietro consiglio di alcuni amici intellettuali, in quanto “troppo personale”. Dopo anni di femminismo avevo imparato a distinguere il “privato”, come esperienza particolare di ogni singolo individuo, da tutto ciò che nel vissuto “personale” parla la lingua di secoli di storia umana. Allo stesso modo, capivo che ad avvicinare uomini e donne, pur nella diversità dei destini loro assegnati dalla cultura patriarcale, era la spinta a ricomporre ciò che la storia ha separato e contrapposto.
La “rivelazione” che Asor Rosa descriveva come “l’ultimo paradosso dell’essere e della conoscenza” significava -per usare le sue parole – “far apparire in superficie l’interiorità, farla diventare esteriorità, vita, relazione fra esseri umani”. In quella che lui aveva chiamato la “finis historiae” io leggevo, al contrario, l’inizio di una nuova inedita narrazione dell’umano, spinto a ripensarsi dalle proprie radici – l’infanzia, la relazione tra uomini e donne, la serie infinita delle divisioni create dal potere e dalla cultura patriarcale -, e a dar voce a ciò che è parso a lungo “impresentabile”, a inventare “un’altra lingua”. Non mi è stato difficile riconoscere in quell’uscita da ogni dualismo – tra saggistica e narrativa, riflessione e racconto, pensiero e sentimenti, ecc. – , la strada che si era già aperta per me con quella che negli anni Ottanta avevo cominciato a chiamare “scrittura di esperienza”: una pratica di scavo nella memoria del corpo che, dopo aver letto il suo libro, avrei descritto quasi sempre con la sua suggestiva immagine di “mineralogia del pensiero”.
Nella Premessa a L’ultimo paradosso, Asor Rosa scrive: “È singolare facoltà del pensiero umano potersi pensare al di fuori dei vincoli biologici e costruire su quella persuasione persino dei sistemi. Ma quanto più si ritira e s’affonda, tanto più registra e descrive soltanto ciò che esso stesso è (…) Penso a una biologia colta, ben educata, resa matura e accorta dall’esperienza. Ad una biologia dei sentimenti e della conoscenza, ad esempio: fortemente legata alle impercettibili e pur decisive variazioni e sfumature del ciclo vitale”. Nelle pagine centrali del libro, il discorso si fa più articolato e più chiaro nel descrivere che cosa significa, in un sistema di informazione vorticoso e prodigo di notizie sempre nuove, “imparare ad affondare la psiche nell’interiorità”. “Avverto il bisogno di piantare una trivella in questo universo verbale sottostante, che, come una immensa galassia sconosciuta, ci trasporta verso un mondo altrettanto incognito, anche soltanto per cavarne frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee -tutto un pulviscolo di immagini e di sensazioni, una vera e propria mineralogia del pensiero (…) Ci sono oceani, ci sono montagne di cose non nominate. L’attività dell’uomo riposa su di un mare di cose che non sappiamo come chiamare: e, come tutti i mari, è un mare ribollente, infido, ribelle”.
Alberto Asor Rosa non è mai entrato in modo diretto nelle problematiche del femminismo, ma la relazione tra i sessi, nel riflesso che ha in particolare sull’esperienza che l’uomo fa del modello virile, come eredità secolare di padre in figlio, è lucidamente presente in molti sui scritti, saggi e romanzi. Penso in particolare a uno dei frammenti che compare ne L’ ultimo paradosso dove si parla del “circolo” degli uomini seduti “da secoli” intorno a un tavolo, da dove impartiscono il comando e distribuiscono il potere, con i corpi rattrappiti dentro pesanti armature, che scricchiolano e fanno male, ma ugualmente attenti a impedire con il solo sguardo ogni desiderio di libertà dei loro simili. Qualcosa di significativo, per quanto riguarda la faticosa e contraddittoria relazione tra i sessi, posso dire che è passato anche attraverso la nostra amicizia e l’attenzione con cui abbiamo letto e riflettuto sugli scritti dell’ uno e dell’altra.
Nella lettera che mi ha mandato dopo che è uscita su il manifesto la recensione del suo ultimo romanzo, Amori sospesi (Einaudi 2017), scriveva: “Carissima Lea, che devo dire? Da quando ho letto Come nasce il sogno d’amore – e da quando, quasi contemporaneamente – ho fatto esperienze di vita, che mi hanno scoperto cose e sentimenti, e passioni, di cui fino a quel momento non sospettavo neanche l’esistenza – ho sempre pensato (ma nel frattempo avevo letto, e meditato, altre cose tue, come Lo strabismo della memoria e Le passioni del corpo) che c’erano pronostici di comunicazione e di comprensione con te, inimmaginabili con altri. Il tuo articolo sugli “Amori sospesi” ne è stato per me una conferma, una riprova, clamorosa. Non tornerò sulle cose che tu dici, se non per segnalare che quel che più m’è piaciuto è la ri-descrizione dell’amore (come passione, come sesso, come tutto) in grado di disvelare all’individuo (di sesso prevalentemente maschile, ma non solo) tutto ciò – e tutto ciò di essenziale, – a cui non sarebbe mai altrimenti pervenuto (…). Chiamare in causa L’ultimo paradosso è stato ai miei occhi (consentimi l’iperbole) geniale. A nessuno se non a te (forse neanche a me) sarebbe venuto in mente che lì è la radice di tutto. Grazie di averlo estratto dalla tua cultura e dalla tua immaginazione e di avermi consentito di vederlo. C’è solo da rammaricarsi che tra un libro e l’altro, dell’una e dell’altro, che ci piacciono molto, non ci si veda mai. Spero che accada presto.”
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