«Sine dominico non possumus» rispondevano nell’anno 304 alcuni cristiani di Abitene nell’attuale Tunisia quando, sorpresi nella celebrazione eucaristica domenicale, che era proibita, furono portati davanti al giudice e fu loro chiesto perché avevano tenuto di domenica la funzione religiosa cristiana, pur sapendo che era punita con la morte. E nell’anno 2020 dell’Era Cristiana, le esigenze sanitarie impongono il «niente messe domenicali»? Bene fa il comunicato della Conferenza Episcopale Italiana a ribadire che «la Chiesa esige di poter riprendere la sua azione pastorale». Benissimo fa a richiamare «il dovere di distinguere tra la loro responsabilità (governo e comitato tecnico) – dare indicazioni precise di carattere sanitario – e quella della Chiesa, chiamata a organizzare la vita della comunità cristiana, nel rispetto delle misure disposte, ma nella pienezza della propria autonomia»-

I Vescovi italiani «non possono accettare di vedere compromesso l’esercizio della libertà di culto. Dovrebbe essere chiaro a tutti che l’impegno al servizio verso i poveri, così significativo in questa emergenza, nasce da una fede che deve potersi nutrire alle sue sorgenti, in particolare la vita sacramentale». Dunque ritorniamo a quel «senza la celebrazione domenicale non possiamo vivere» dell’anno 304. Era chiarissimo allora, tempi in cui si rischiava la vita. e infatti i 49 di Abitene sono stati uccisi e riconosciuti martiri dalla Chiesa.

E poniamoci oggi la domanda: in una democrazia, si possono sospendere le cerimonie religiose? La Messa domenicale soprattutto? I vescovi italiani – e non solo – hanno accettato una decisione imposta dai motivi sanitari a marzo. Abbiamo visto Papa Francesco accettare la limitazione imposta e i riti della Settimana Santa si sono svolti in assenza di fedeli. Motivi stringenti di ordine sanitario. Ed è andata bene in qualche modo: si è supplito con un aumento delle celebrazioni in tv, via social, on line in qualche caso, e sempre con le chiese aperte per i momenti di preghiera personale. È stata una decisione sofferta, imposta dall’alto, dettata dalla ricerca del «bene comune», perché la Chiesa non è al di fuori della convivenza civile. Anzi è impegnata a favorire la convivenza civile. E se le autorità di uno Stato democratico chiedono e motivano, occorre rispondere.

Ma si tratta di emergenza, destinata a durare il tempo strettamente necessario. Al di là delle considerazioni sull’opportunità di misure simili, dal punto di vista pastorale credo abbiamo ricevuto tutti una «scossa» forte. Certo, altari e tabernacoli «in rete» e catechesi in rete rappresentano possibilità nuove. Ma non tutto si può trasferire. E non tutto si può trasmettere in qualsiasi modo. C’è bisogno di discernere cosa e come trasmettere. Una diversa riflessione di fondo riguarda in modo particolare le celebrazioni liturgiche. Per loro costituzione esse richiedono la presenza fisica del popolo credente. La vicinanza dei corpi in queste celebrazioni è indispensabile. Si potrebbe dire che è la condizione perché possano realizzarsi. L’assemblea riunita è la prima presenza reale di Gesù sulla terra. Come disse: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro” (Matteo 18, 20).

È una dimensione irrinunciabile, senza la quale non c’è né cristianesimo né Chiesa. È ovvio che nella condizione che stiamo vivendo si debbono studiare le forme per rendere «sicure» le celebrazioni dal punto di vista sanitario. E non possiamo accettare che ci siano «criticità ineliminabili». Tutto è possibile, purché ci sia intelligenza e creatività. La vita della comunità cristiana si esprime nella partecipazione. Non ci sono alternative. Il valore della «incarnazione» del Figlio di Dio è il cardine della fede cristiana. Su questo abbiamo misurato una distanza tra «la politica» e «la religione». Non dimentichiamo che certamente dobbiamo dare «a Cesare» quel che è suo, ma anche a «Dio» dobbiamo dare quel che è di Dio. La celebrazione della Domenica – memoria della Pasqua – è questione fondamentale di vita della comunità cristiana. E i cristiani non possono transigere. Disponibili, ovviamente, a immaginare e realizzare tutti gli opportuni accorgimenti. Tra l’altro le nostre chiese sono grandi e consentono una partecipazione senza pericoli.

La Chiesa ha fatto opportunamente la sua parte nell’emergenza più stringente. Con un uso consapevole delle risorse che abbiamo, degli spazi, degli strumenti sanitari, le celebrazioni domenicali non devono più venire interdette. Vanno regolate, non proibite. Si potrà, se ritenuto opportuno, continuare a chiedere alcuni sacrifici, come limitare il numero dei fedeli a ciascuna celebrazione. Certamente scopriamo e riscopriamo la preghiera personale, come anche l’ascolto della Parola di Dio ovunque siamo; così pure il servizio di carità per i più poveri. E non c’è dubbio che in questo tempo possiamo riscoprire dimensioni religiose che abbiamo anche trascurato. Ma allo stesso tempo la dimensione comunitaria è ineludibile.

Papa Francesco è appositamente intervenuto: «La Chiesa, i sacramenti, il Popolo di Dio sono concreti. È vero che in questo tempo dobbiamo fare questa familiarità con il Signore in questo modo (attraverso i media), ma per uscire dal tunnel, non per rimanerci. Questa è la familiarità degli apostoli: non gnostica, non egoistica per ognuno di
loro, ma una familiarità concreta, nel popolo». Insomma, il rapporto con Dio, per il cattolicesimo, è sempre legato alla comunità dei credenti. Altrimenti si corre il rischio di trasformarlo in un individualismo religioso e in una sorta di religione gnostica. Dobbiamo riconoscere che quell’individualismo che come un virus ha infettato la società moderna, ha colpito anche il cristianesimo.

Lo rilevava papa Benedetto XVI nella Enciclica Spe Salvi parlando di un cristianesimo segnato da un “individualismo della salvezza”, che spinge a pensare la salvezza come una dimensione individuale: ciascuno deve pensare a salvarsi l’anima. Benedetto XVI scrive che non è questo il messaggio del Vangelo. Ci si salva in un popolo.  Ai martiri di Abitene papa Benedetto ha dedicato l’omelia a chiusura del Congresso Eucaristico Nazionale del 2005, a Bari. «Abbiamo bisogno di questo Pane per affrontare le fatiche e le stanchezze del viaggio. La Domenica, Giorno del Signore, è l’occasione propizia per attingere forza da Lui, che è il Signore della vita. Il precetto festivo non è quindi un dovere imposto dall’esterno, un peso sulle nostre spalle.

Al contrario, partecipare alla Celebrazione domenicale, cibarsi del Pane eucaristico e sperimentare la comunione dei fratelli e delle sorelle in Cristo è un bisogno per il cristiano, è una gioia, così il cristiano può trovare l’energia necessaria per il cammino che dobbiamo percorrere ogni settimana. Un cammino, peraltro, non arbitrario: la strada che Dio ci indica nella sua Parola va nella direzione iscritta nell’essenza stessa dell’uomo. La Parola di Dio e la ragione vanno insieme. Seguire la Parola di Dio, andare con Cristo significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso».

La salvezza non è mai individuale: è sempre di tutto il popolo. Oggi il «popolo di Dio» può continuare a radunarsi in sicurezza: gli spazi ci sono, la volontà delle persone, le regole democratiche lo consentono. Sarebbe ora di dare ascolto alla voce del Papa e dei vescovi e dei sacerdoti e dei fedeli: tutti sappiamo che senza la celebrazione domenicale non possiamo vivere perché ci porta oltre il difficile e complesso presente. Radunarci come popolo di Dio (in piena sicurezza, lo ribadisco; gli spazi dei nostri edifici sacri lo consentono!) apre uno spiraglio grande nella nostra vita. E l’Apocalisse la rivela mostrandoci la città nuova della Gerusalemme del cielo, comune destinazione dei popoli della terra, al termine della storia. E potrei dire che uno dei contributi più significativi che la Chiesa può dare ad una società che rischia la polverizzazione dei rapporti è proprio la Messa della domenica: è un fermento di salute anche per la stessa società.