Deciderà nella giornata di domani, la giudice Paola Faggioni, se Giovanni Toti potrà tornare libero e riprendere a lavorare alla presidenza della Regione Liguria, dopo oltre 30 giorni dall’arresto. Le elezioni europee sono passate. E l’inchiesta genovese che il 7 maggio ha messo a soqquadro la Regione Liguria con gli arresti del governatore e di alcuni imprenditori, non pare aver lasciato traccia alcuna sull’elettorato. L’affluenza ha superato il 50% e la media nazionale, Fratelli d’Italia è il primo partito e l’alleanza di centrodestra ha tenuto. Tutto tranquillo, dunque. E l’avvocato Stefano Savi, che difende il principale accusato, ha con signorilità atteso l’evento politico, nel quale comunque la Lista Toti non era presente, prima di presentare la richiesta di revoca degli arresti domiciliari del suo assistito.

Avrebbe potuto farlo all’indomani dell’interrogatorio, nel quale il presidente aveva risposto con cura e precisione alle 180 domande degli inquirenti. Ma aveva atteso, anche perché le motivazioni alla base dell’arresto configuravano il pericolo di inquinamento delle prove e di ripetizione del reato di corruzione, legati anche alle elezioni dell’8 e 9 giugno. Il famoso “do ut des” tra finanziamenti elettorali e provvedimenti amministrativi. Passate le elezioni e sapendo che le prossime in Liguria saranno le regionali del settembre 2025, e quasi terminate le audizioni dei testimoni, le esigenze cautelari dovrebbero essere superate. Che senso ha quindi che Giovanni Toti non sia ancora libero? Dovrebbe magari dichiararsi prigioniero politico?

Ma ecco spuntare un altro ostacolo. In attesa della decisione della gip Paola Faggioni, prevista per domani, si fanno vivi i pm Federico Manotti e Luca Monteverde con il loro parere. Anticipato dall’agenzia Ansa. Secondo cui la richiesta va respinta perché il governatore non si è ancora dimesso. Ma veramente? Singolare e pericoloso l’argomento sulle dimissioni. Se davvero i pubblici ministeri ritengono che solo la rinuncia all’incarico di Presidente della Regione possa sanare la situazione di pericolosità che porta alla necessità della misura cautelare, cioè delle manette, sarà necessario lanciare una sorta di allarme democratico.

Perché questo atteggiamento della procura significa due cose. La prima è che le decisioni degli elettori non contano niente e che non c’è rispetto nei loro confronti. Anche perché quella della Procura della Repubblica sui reati commessi dal governatore è solo un’ipotesi, un’intuizione di una delle parti processuali, quella dell’accusa. Non è una certezza né una prova provata. Il secondo motivo di allarme è determinato da un pericoloso attacco della magistratura nei confronti della politica. Nel gioco delle parti, la procura di Genova sta dicendo al governatore della regione Liguria che per sedersi al tavolo a parlare di libertà, occorre prima purificarsi e togliersi di dosso l’abito politico. L’indagato deve essere nudo, privato del suo ruolo, del suo potere e anche della sua dignità. Non si può giocare la partita ad armi pari. E infatti pari non sono, le due parti processuali. Ma qui c’è in ballo anche la vita di un uomo. E anche quelle degli altri con lui indagati.

L’elastico processuale di questa inchiesta ricorda sempre di più la favoletta del lupo e l’agnello. Non c’è la presunzione di non colpevolezza in Fedro né in Esopo, perché l’acqua del ruscello è stata intorbidata, e l’agnello è sicuramente colpevole. Lui con la sua stirpe, il suo mondo, il suo partito, i suoi elettori. Qualunque argomento lui possa usare per difendersi, il lupo se lo mangia. Non basta rispondere a 180 domande, non è sufficiente aver rispettato le leggi elettorali e aver registrato ogni contributo. Niente mazzette, ma non importa. Perché ogni fatto, ogni gesto, vengono letti con la lente del sospetto, del pregiudizio. Prendiamo l’accusa principale, quella di aver “barattato” quattro spiccioli (perché questo sono i contributi di qualche migliaia di euro, in rapporto all’entità delle operazioni d’impresa) per la sua lista elettorale con impegni miliardari di opere e sviluppo per il porto di Genova. Sorprende “l’ignoranza” esibita dai magistrati, che paiono non tenere in nessun conto quanto sia importante per i cittadini mandare nei luoghi apicali delle amministrazioni, le persone “del fare”. Cioè coloro che si impegnano a trovare i finanziamenti per le opere, grandi e piccole, e poi a spenderli perché i lavori vengano realizzati e portati a termine.

L’immagine del governatore Toti che “faceva pressioni” perché, per esempio, la concessione del Terminal Rinfuse fosse prorogata per 30 anni e soprattutto si decidesse con rapidità, viene lanciata e rilanciata dai giornali a lui ostili, il Secolo XIX davanti a tutti, come fatto negativo e fonte di illegalità. Ma la stessa immagine potrebbe invece esser guardata in positivo e con ammirazione nei confronti di un amministratore che ha a cuore lo sviluppo del porto di Genova. Tanto che alla fine delle trattative, in cui comunque il governatore non era nulla di diverso da un autorevole suggeritore, i due imprenditori interessati all’affare, Aldo Spinelli e l’armatore Aponte, da un mese anche proprietario dello stesso quotidiano che ha sposato da subito la tesi dell’accusa, avevano trovato l’accordo. Grazie anche alla sapiente attività di mediazione di Giovanni Toti e alle sue “pressioni”. Oltre a tutto ricordiamo, e i magistrati lo sanno bene, che la decisione sulla proroga della concessione per il Terminal Rinfuse era competenza non del Presidente della Regione, ma dell’Autorità portuale, che non poteva pronunciarsi se non sulla base di precise regole e parametri. In ogni caso, si riporti ora il processo nel suo alveo naturale di parità tra le parti e si restituisca la libertà al Presidente della Regione Liguria. Lo sapremo domani, con la decisione del giudice Faggioni.

Avatar photo

Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.