Forse Giovanni Toti non avrà la tempra di Bettino Craxi, ma intanto, più o meno silenziato dai mezzi di informazione, è successo quel che non era prevedibile. È tornata la politica, questa sconosciuta. Nelle settimane scorse, malgrado un paio di guerre in atto, malgrado le imminenti europee, i giornali hanno versato fiumi di inchiostro per informare il paese dello yacht di Aldo Spinelli, dei weekend a Montecarlo per il Master di tennis, degli hotel da nababbi, degli orologi svizzeri di lusso. E fiumi di inchiostro, naturalmente, sugli spezzoni di telefonate tra amministratori e imprenditori, quelli più succosi, i più allusivi.

Distruggere le carriere 

La procura aveva aperto il recinto, i buoi erano andati dove dovevano. E, sulla base delle notizie arrivate ai media, il profilo di Toti, del grande accusato di turno, diventava nitido, inequivocabile. E inguardabile. Corruzione, cioè malapolitica. Un gioco fin troppo facile. Da decenni, nel paese di Beccaria, l’opinione pubblica è abituata a una magistratura inquirente che, come scrisse una volta Alessandro Pizzorno, si arroga “il controllo della virtù e il controllo della correttezza politica”. Che non si limita a indagare i reati contro la pubblica amministrazione, ma finisce per passare al setaccio la moralità dei pubblici amministratori, ovvero la moralità della politica, ben sapendo che basta un’accusa di corruzione – ben prima di qualsivoglia sentenza – per distruggere le più onorate carriere.

La mossa del cavallo di Toti

Questo stava accadendo, secondo il solito copione, anche a Toti. Chi mai avrebbe puntato un euro sulla sua correttezza? Poi però, dopo giorni di silenzio (ai domiciliari), il presidente della Liguria ha fatto la mossa del cavallo. Ha consegnato una memoria difensiva ai suoi accusatori e, prima ancora, ai mezzi di informazione. Con una scelta significativa dei tempi. I pm genovesi se ne sono subito lamentati. “Sconcertante” averla letta quand’era già pubblica, hanno detto. Sconcertante per un paese dove i processi si celebrano proprio sui mezzi di informazione? Certo è che Toti ha smontato l’usuale trappola mediatico-giudiziaria, costringendo l’opinione pubblica a prendere atto delle proprie ragioni e non soltanto di quelle dell’accusa. Smontando l’italica certezza che quel che dice l’accusa sia prova provata. E se avesse ragione l’accusato? Ma questo è il meno.

La difesa della politica

Nella sua memoria, di fronte a una magistratura “etica” e a un’opinione pubblica mediamente forcaiola, Toti ha avuto l’ardire di difendere la politica. I finanziamenti? Ci sono stati, ma erano espliciti, documentati e non corruttivi. “Le linee politiche e morali della mia azione”, scrive il governatore, hanno sempre avuto come obiettivo l’interesse pubblico, e fa parte dell’interesse pubblico incentivare “l’attività privata”, rendere “più celeri e semplici gli investimenti”, attirare sul territorio quel che è “un valore aggiunto per la comunità”. Era suo compito, ricorda replicando alle accuse, ascoltare tutti, le aziende amiche e le aziende di altro orientamento, Spinelli come Grimaldi, Colaninno, Costa, MSC. E mediare tra i diversi e legittimi interessi, impedire che i contrasti rallentassero il corso delle cose. È questa la politica, dice Toti, e andrebbe vista e valutata a tutto campo, nella quantità delle sue funzioni e nei tempi nei quali si svolge. Sceglierne soltanto una piccola parte soltanto, leggerla dal buco della serratura – sembra intendere – significa manipolarne i fatti e le ragioni.

Craxi e le monetine

Bettino Craxi? Certo, il paragone è azzardato. Craxi fu ancora più coraggioso. Pronunciando alla Camera un famoso discorso, riconobbe che, in quel tardo Novecento, i costi dei partiti erano cresciuti in modo abnorme e che il loro finanziamento illegale era diventato prassi comune. Una chiamata in correità che venne assai poco apprezzata dai correi, tant’è che il giorno dopo, il 30 aprile del 1993, una folla di comunisti, missini e leghisti lo aspettò inferocita davanti al Raphael, sommergendolo sotto una gragnola di pietre e monetine. Ma il senso di quel suo ultimo discorso parlamentare è lo stesso che torna, trent’anni dopo, nelle parole di Toti. È la difesa dell’autonomia della politica di fronte all’esondazione delle procure e dei media.

Il parlamento di Craxi, come si sa, alzò invece bandiera bianca. Si spogliò dell’immunità che gli garantivano le leggi. Diede corso libero all’Italia antipolitica e antiparlamentare, populista e giustizialista. E oggi? Quel che accadrà è difficile a dirsi e tuttavia, sebbene il clima sia meno arroventato e i partiti abbiano capito a proprie spese la gravità di quei lontani errori, il confronto rimane aperto ed è sempre tra giustizia e giustizialismo. O, meglio, tra magistratura e politica. Due istanze che, da trent’anni, per larghi strati di opinione, sembrano incarnarsi nella toga disarmata e nella Casta intoccabile. Davide e Golia. Ma le cose stanno davvero così? Scrivevano nel 1997 due studiosi al di sopra di ogni sospetto come Carlo Guarnieri e Patrizia Pederzoli: “L’Italia è il solo paese democratico dove le funzioni di giudice e di pubblico ministero sono affi datiallo stesso corpo di magistrati indipendenti, che si autogovernano attraverso lo stesso Consiglio superiore”. Ne dovrà fare di strada, Nordio, per rimettere le cose a posto.