Negoziati in salita per gli ostaggi
Il viaggio di Gantz che fa infuriare Netanyahu: l’ex generale negli Usa per la benedizione elettorale
Dopo 150 giorni di prigionia, gli ostaggi nelle mani di Hamas continuano a essere il grande nodo dei negoziati tra Israele e l’organizzazione palestinese. I familiari non fermano la loro protesta, chiedendo al governo di Benjamin Netanyahu di fare qualcosa per trovare una soluzione, anche attraverso l’accordo con Hamas. Ma le trattative non sono semplici, e il gruppo che controlla (o controllava) la Striscia di Gaza ha iniziato ad alzare l’asticella delle richieste e ad aumentare la pressione sull’opinione pubblica.
Basim Naim, uno dei membri di spicco dell’ufficio politico di Hamas, ha fatto capire che dare seguito alla richiesta israeliana di avere i nomi dei rapiti è al momento “praticamente impossibile”. Parlando alla Bbc, Naim ha ammesso che al momento non si può sapere “chi è ancora vivo e chi è stato ucciso a causa dei bombardamenti israeliani o chi è stato ucciso per fame a causa dell’assedio israeliano”.
E questo sarebbe anche dovuto alla spartizione degli ostaggi tra i diversi gruppi armati, che non riuscirebbero a comunicare tra di loro. Per molti osservatori, quella di Hamas è soprattutto una mossa per premere su Israele. Ma dai colloqui in corso al Cairo, in Egitto, le speranze non sembrano essere elevate. Un alto funzionario di Hamas, parlando al media libanese Al Mayadeen, ieri aveva spiegato che non c’erano dei “progressi reali” al tavolo delle trattative. E questo, a detta del funzionario palestinese, era per colpa di Israele, che non aveva dato risposta alle condizioni poste per la liberazione degli ostaggi. Tra queste, quella più importante per Hamas: il completo ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia una volta raggiunto il cessate il fuoco definitivo. Alcune fonti vicine alle trattative hanno detto a più media internazionali che l’accordo potrebbe arrivare dopo l’inizio del Ramadan, il mese sacro per i musulmani. Tuttavia, nell’attesa che il negoziato si sblocchi, da Hamas sono arrivate minacce molto chiare riguardo l’avvicinamento di questo importante appuntamento della religione islamica: “Trasformare ogni giorno in una giornata di scontri”.
Per parte israeliana, la politica appare divisa. Il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, leader della destra radicale, ha invocato “la cessazione dei colloqui negoziali”, chiedendo di “passare a un’altra fase di lotta intensa”.
Mentre sul fronte opposto, a tenere banco è il viaggio a Washington del membro del gabinetto di sicurezza (ma leader d’opposizione) Benny Gantz. I giornali israeliani hanno parlato di un Netanyahu furioso per il tour americano dell’ex generale. L’esecutivo ha fatto intendere che quello di Gantz è un viaggio privato. Ma non può sfuggirne la rilevanza politica, dal momento che l’agenda del leader centrista negli Usa prevede incontri con la vicepresidente Kamala Harris, il segretario di Stato, Anthony Blinken, e il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan. Per alcuni osservatori, la visita di Gantz è un messaggio nemmeno troppo subliminale lanciato dall’amministrazione Biden al premier israeliano.
I sondaggi dicono che l’ex generale delle Israel defense forces potrebbe essere il prossimo capo del governo in caso di elezioni. E il presidente Joe Biden ha più volte fatto capire di non apprezzare la linea di Netanyahu. Domenica, Harris è inoltre tornata a parlare della guerra dicendo che “ci deve essere un cessate il fuoco immediato per almeno sei settimane” e ricordando la “immensa portata della sofferenza a Gaza”. Parole che hanno trovato il plauso anche dell’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, Josep Borrell, il quale ha chiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di agire il più presto possibile. L’impegno di Washington ora è tutto rivolto al raggiungimento di un accordo tra Hamas e Israele, anche per evitare che si incendino altri fronti. Gli Houthi continuano a rappresentare una minaccia per le rotte commerciali nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. Ma a preoccupare l’America è anche il Libano. Ieri, per riuscire a sciogliere il nodo della presenza di Hezbollah, a Beirut è arrivato l’inviato speciale Amos Hochstein. Per il funzionario Usa, un conflitto tra la milizia sciita e le Idf non sarebbe “contenibile”, potendosi allargare a tutto il Paese dei cedri con conseguenze pesanti anche per la sicurezza di Israele. E proprio per questo ha ribadito che “una soluzione diplomatica è l’unico modo per porre fine alle attuali ostilità”, non bastando più una semplice tregua.
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